Sono davvero poche le persone che sentono il bisogno di un'altra opera sui succhiasangue, dopo lo tsunami di film e libri sui vampiri scatenato da Twilight. Anche noi di ON eravamo piuttosto scettici prima di metterci comodi davanti allo schermo e iniziare la visione di What we do in the shadows.
Ci siamo sbagliati. Oh, quanto ci siamo sbagliati.
Il duo musicale neozelandese “The flight of the Conchords”, (di recente anche trasformato in una serie tv HBO) dà una grande prova di sé in questo film scritto diretto e interpretato da loro stessi.
La trama è presto detta: un gruppo di vampiri, tutti di età e origini diverse, invitano una troupe nell'appartamento che condividono nella città di Wellington, allo scopo di girare un documentario sulla loro vita da non-morti.
Non è semplice parlare di questo film. Intendiamoci, potremmo dire che si tratta di un esilarante mockumentary che prende in giro le sia le decine di reality show che si sono susseguite sugli schermi televisivi, (come The Osbournes, Jersey Shore e The Real World) sia i sopracitati film pseudo-gotici su vampiri e lupi mannari.
Potremmo dirvi che la sceneggiatura e la regia di Waititi e Clement sono fantastiche, che le loro interpretazioni e i loro tempi comici sono ben congegnate e dissacranti.
Potremmo e ve lo diciamo, ma non è sufficiente a rendere l'idea.
What we do in the shadows è la commedia di cui si sentiva il bisogno da tanto, troppo tempo, dopo anni di gag-movie raffazzonati e senza ispirazione: un ritorno alla parodia intelligente in cui la demenzialità è contestualizzata e per questo ancora più efficace.
La parodia svernicia la figura del vampiro dal suo smalto luccicoso e lo mostra in situazioni quotidiane che sono tanto comiche proprio perché assolutamente comuni: il film si apre con Viago (interpretato da Taika Waititi), un dandy di 379 anni, che indice una riunione incucina insieme ai suoi coinquilini, tutti meno Petyr, un mostruoso nosferatu di 8000 anni. Perché questa riunione? Quale sarà mai lo scopo di questo conclave di non-morti? Semplice: Deacon (Jonathan Brugh), il giovane ribelle di 187 anni, non lava i piatti da cinque anni e ha lasciato una montagna di calici insanguinati nel lavabo.
Vedere i vampiri alle prese con gli aspetti più comuni della loro maledizione genera episodi e gag a non finire, come il dover mettere uno strato di giornali sotto l'ignara vittima per non macchiare di sangue la moquette del soggiorno, o l'aver bisogno di gioco di squadra per vestirsi, dato che non possono riflettersi negli specchi e così via, fino alla fatidica serata della “Unholy Masquerade”, il gran ballo in maschera annuale a cui partecipano tutti i non-morti della Nuova Zelanda, zombie e Beanshee comprese.
Il giocare sugli stereotipi del mito del vampiro è fin troppo facile, ma sono riusciti a rendere il tutto non banale, come lo stile di Vlasislav, il perverso torturatore del XII secolo, che definisce sé stesso “Dead and Delicious”.
Non abbiamo potuto fare a meno di notare i buffi parallelismi tracciati dagli autori a opere come Being Human e anche Only lovers left alive, per non parlare dell'ormai classico Interview with the Vampire. Chiunque può godersi questo film, ma di certo un amante delle pellicole dedicate ai signori della notte lo apprezzerà in modo particolare.
La regia è gestita con grande abilità, simulando alla perfezione i reality più famosi, voci fuori campo e momenti di “confessionale” privato compresi. Il tempo comico è sempre azzeccatissimo sia nei dialoghi che nelle inquadrature.
Ci sono dei nei, in questa pellicola, è inevitabile: alcuni attori non sono all'altezza del duo principale e danno delle performance un po' piatte, ma tutto sommato tollerabili. Gli effetti speciali, come il volo, la trasformazione in pipistrello (per non parlare dei licantropi) risentono del basso budget con cui è stato realizzato il film, ma l'effetto è ancora più ridicolo e fa il verso ai film trash anni '80, anche se vedere pellicole come questa pensando agli effetti speciali è come andare al ristorante per godersi le posate.
Resta solo una cosa da dire: sempre più spesso troviamo perle cinematografiche fra le produzioni lontane da Hollywood, che sembra ormai bloccata in un circolo vizioso fatto di Pre\sequel e remake, in cui le idee originali sembrano andate perdute da tempo. What we do in the shadows è l'esempio lampante di cosa può fare la macchina da presa se messa in mano ad artisti che hanno le tasche piene non di soldi ma di talento.