Lo schwa o a volte la schwa, o ancora, italianizzando, lo scevà. Una lettera (questa: ə), un suono, un simbolo di un cambiamento linguistico (o almeno una proposta) che punta all’inclusività, un cambiamento criticabile e criticato. Forse ne avete sentito parlare, in maniera positiva o negativa, forse l’avete anche usata, nello scritto o nel parlato.
Ma di cosa stiamo parlando, esattamente, quando parliamo di schwa? Da dove arriva? Come funziona? Perché usarla, o perché non usarla? Se hai queste e altre domande sei nel posto giusto, perché tra poco leggerai tutto quello che devi sapere sullo schwa.
Cosa sapere sullo schwa (o scevà)
L’italiano ha, secondo alcune persone, un problema, anzi due. Il primo è evidente quando si deve parlare di un gruppo di persone, o ci si deve riferire ad una moltitudine di individui. A meno che non si tratti di un insieme di sole donne, si andrà ad utilizzare il cosiddetto maschile sovraesteso. Quindi “tutti”, “questi”, “amici”, “ragazzi”, e via dicendo. La cosa si estende anche quando si parla di ambiti specifici (“scienziati”, “politici”).
La problematica, in questo primo caso, riguarda l’appiattimento della pluralità dei generi, che viene ricondotta al solo maschile, con situazioni che vanno dal bizzarro (un gruppo di dieci giovani è fatto di “ragazzi” anche se composti di 9 ragazze e un ragazzo) al concettualmente problematico, visto che possono suggerire (o rinforzare, visto che in molti casi è effettivamente vero) l’impressione e l’idea che un ambito sia ad appannaggio (prevalente o esclusivo) maschile.
La questione, nota da decenni e risolta a volte con la toppa della doppia forma (“Tutte e tutti”, “amiche e amici”), è stata poi in tempi recenti affiancata dalla consapevolezza di un’altra realtà, ovvero quella delle persone non binarie, ovvero tutte quelle persone il cui genere non corrisponde né a quello maschile né a quello femminile. Alcune persone non binarie accettano (o si ‘accontentano’) del maschile, del femminile o di entrambe le forme, ma altre vorrebbero una forma neutra di qualche tipo per quando ci si riferisce a loro, come esiste in altre lingue (they/them in inglese, utilizzabile anche al singolare; hen in svedese). Una forma neutra risulterebbe inoltre utile per parlare di persone di cui non conosciamo ancora il genere, evitando di dover tirare a caso o assumendolo in base al loro aspetto fisico.
Questo è particolarmente pressante in italiano, dove, oltre ai pronomi, molte parole riferite alla persona vanno declinate a seconda del genere. Si ricollega inoltre in parte anche al primo problema, perché evidenza la natura binaria (ovvero considera solo il maschile e il femminile) della doppia forma, e quindi la sua insufficienza.
Il linguaggio inclusivo
Alla luce di quanto visto, negli anni sono state proposte diverse soluzioni, per risolvere uno o entrambi i problemi. A livello di linguaggio scritto sono stati per esempio proposti l’asterisco (“tutt*”, “l*i è un molto bell*”) o la chiocciola (“Andrea è un@ mi@ amic@”). Si tratta di soluzioni però non applicabili nel parlato, almeno non da sole. La lettera u è facile da pronunciare e scrivere, ma in alcuni dialetti è già presente in associazione al maschile e non permette di creare una forma neutra per “lui/lei”.
Nel 2015 l’attivista Luca Boschetto ha proposto, prima con un documento e poi con un intero sito monografico, chiamato Italiano Inclusivo, l’utilizzo di un suono vocalico non incluso nelle canoniche cinque vocali ma presente in molte lingue: ə, ovvero lo schwa (nome tedesco, in italiano adattato in scevà). È infatti un suono fondamentale per la lingua inglese (la ‘e’ di “the”, la ‘u’ di “supply” e la ‘a’ di “about” sono pronunciate come uno scevà) ed è presente anche in molti dialetti italiani (la parola napoletana “mammeta” si pronuncia “mammətə”).
Se non avete ancora capito esattamente come pronunciarlo, le indicazioni da seguire sono facilissime. Si tratta infatti la vocale prodotta aprendo la bocca in una posizione neutra, senza sforzare o deformare muscoli e labbra, ed emettendo un suono. Il risultato è un suono, appunto, neutro, un verso quasi.
Un simbolo pubblico
Nonostante rimanga ancora una proposta molto di nicchia, portata avanti da una parte progressista ma minoritaria della popolazione con anche alcuni dibattiti interni e un fronte tutt’altro che unito, negli ultimi due anni lo schwa è diventato il simbolo del linguaggio inclusivo.
A contribuire a questa diffusione e a questo inserimento nel dibattito pubblico è stata sicuramente la linguista Vera Gheno, diventata in qualche modo il volto di questa proposta, nonostante come abbiamo visto non derivi da lei. Ironicamente, non è stato tanto il suo lavoro diretto e la sua trattazione in libri come Femminili singolari a portarla alla fama, quanto le critiche a lei rivolte. A Luglio 2020, infatti, il giornalista Mattia Feltri ha pubblicato un editoriale su La Stampa in cui sbeffeggiava la schwa, citando indirettamente e incorrettamente Vera Gheno come membro dell’Accademia della Crusca (invece che come semplice collaboratrice) che a nome di questa istituzione avrebbe promosso questa vocale.
Gheno ha risposto direttamente e punto per punto a queste critiche, e la vicenda è stata ripresa da diverse testate, con editoriali e interviste che sicuramente hanno contribuito a far entrare la proposta nel dibattito pubblico. La maggioranza di coloro che parlano la lingua italiana probabilmente comunque ignora anche solo l’esistenza di questa vocale, ma intanto diversi intellettuali e artisti hanno iniziato ad adottarla anche fuori dagli ambienti più progressisti. Ne sono un esempio la scrittrice Michela Murgia, che ne ha adottato l’uso in alcuni suoi editoriali, e il fumettista Sio, che lo usa nello scritto per i suoi fumetti e nel parlato all’interno del podcast Power Pizza.
Uno strumento ancora imperfetto
I motivi per utilizzare lo schwa sono chiari. Come riconosciuto anche da chi lo usa, si tratta però ancora di una proposta, in fase di definizione e con alcuni difetti, in parte però aggiustabili.
Trattandosi di una lettera poco comune, è innanzitutto difficile da utilizzare in primo luogo nello scritto, almeno rispetto a simboli come *, u e @. Da telefono, sia su iOS che su Android (almeno per la tastiera Gboard), è ora inclusa sotto la “e”. Da computer, invece, è ancora un po’ complicato, e non c’è ancora una soluzione definitiva, ma è comunque possibile. Alcune persone hanno proposto di utilizzare il già diffuso asterisco e di leggerlo poi nel parlato usando il suono schwa.
La pronuncia poi, per quanto nella pratica fattibile, non è così naturale, e può risultare difficile da incorporare nel parlato. Si tratta però di un ostacolo che probabilmente sarà superato eventualmente solo con la pratica.
Come anche l’asterisco, la chiocciola e altre soluzioni di questo tipo, infine, sono state sottolineate possibili criticità sia per persone con DSA (come dislessia e disgrafia) che per persone ipovedenti che si avvalgono di strumenti di sintesi vocale. Nel primo caso il simbolo nuovo può non causare in realtà problemi o causarli solo in quanto novità, ma in altri casi può essere effettivamente un problema (come lo è però distinguere tra la p e la q). Nel secondo caso, invece, dipende dal software, che in alcuni casi è in grado di leggere lo schwa, in altri lo tronca e in altri ancora dà problemi. In entrambi i casi quindi, tra diffusione e miglioramento dei software, lo schwa non è destinato ad essere un’aggiunta totalmente negativa. Rimane comunque importante tenere conto anche delle necessità di queste persone quando si pensa a questo tipo di proposte.
Queste problematiche, insieme ad altre critiche più o meno superficiali basate sulla musicalità, la tradizione, la storia della lingua italiana, sono state anche al centro di un recente petizione su Change.org dal linguista Massimo Arcangeli e appoggiata da intellettuali come Alessandro Barbero.
Purché se ne parli
Non sappiamo ancora se lo schwa diventerà (o se in primo luogo dovrebbe diventare) una soluzione ampiamente adottata, che attraverso la pratica e la diffusione entrerà a pieno titolo nell’italiano di uso comune. Quello che però abbiamo osservato è, sia attraverso proposte che attraverso critiche, la sua presenza abbia comunque aperto un dibattito necessario sulla lingua.
I problemi che lo schwa, o qualunque altro simbolo inclusivo, non sono solo questioni di mera puntigliosità. In qualche modo riflettono il nostro modo pensare, sia in ambito collettivo, dove i generi diversi dal maschile diventano l’eccezione, che singolare, dove non sono previste deviazioni dal binarismo maschile-femminile.
La lingua è qualcosa di vivo, che le istituzioni come anche la stessa Accademia della Crusca possono descrivere, anche inferendo regole e norme di utilizzo, ma non possono prescrivere. In ogni epoca ci sono stati dibattiti su come cambiare la lingua per riflettere dei nuovi modi di pensare, come ad esempio i futuristi all’inizio del ‘900, e quindi è giusto, senza ovviamente dare per scontata la conclusione di questo processo, farlo anche adesso.
- Editore: Effequ
- Autore: Vera Gheno
- Collana: Saggi pop
- Formato: Libro in brossura
- Anno: 2019
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la schwa è una cosa stupida e complichrebbe di più la vita delle persone dislessiche
Ciao Gaetano! Come avrai letto nell’articolo, la questione per quanto riguarda le persone con DSA (i Disturbi Specifici dell’Apprendimento, che includono ma non si limitano alla dislessia) è viva e presente nel dibattito sullo schwa, che appunto rimane una proposta in risposta a dei problemi diversi ma comunque reali, che (più che secondo noi, secondo le persone che sentono questi problemi in prima persona) non possono essere semplicmente ignorati.
Se sei una persona con DSA, fai benissimo ad esprimere la tua posizione, anzi: quello sullo schwa e altre soluzioni che puntano a rendere il linguaggio più inclusivo è un dibattito propositivo e aperto a tutti i contributi argomentati e sensati.
Se però non rientri in questa categoria, ti chiederei di ascoltare allora anche tutte le persone con DSA che invece non hanno problemi con lo schwa, e soprattutto tutte le persone con DSA che supportano un dibattutto sul linguaggio inclusivo (senza per forza supportare in maniera specifica lo schwa) e che sono stufe di essere strumentalizzate da chi non è affetto da DSA e usa queste persone solo come argomento cappello nella loro posizione allo schwa. Anche perché le energie che vengono spese a “difendere” le persone con DSA da una proposta ancora di nicchia, ancora sperimentale e tutt’altro che diffusa come lo schwa non sono poi spesso usate, almeno con la stessa partecipazione e entusiasmo, per supportare riforme concrete di supporto scolastico e di accessibilità.
Brav*; siete stat* bravissim*