Siamo sopravvissuti giunti alla conclusione del Gioco dei Troni, una partita lunga quasi un decennio, struggente, esaltante, deludente, bellissima e orrida allo stesso tempo, ed ecco a voi la nostra recensione. Pleonastico dire che questo articolo è oscuro e pieno di spoiler e neanche R’hollor verrà in vostro soccorso, visto che è da aprile che ci tratteniamo. Siete stati avvertiti, se non volete leggere spoiler, questo è il momento di cambiare articolo!
Un po’ come il nostro buon Mattia Chiappani, per la sua Recensione di Endgame ha optato per una Lettera d’amore, per Game of Thrones ho ritenuto più opportuna un’elegia un po’ di ghiaccio, per parlare di ciò che ci ha deluso, e di fuoco, per onorare tutto quello che ci ha tenuti col fiato sospeso fino alla fine. Data la peculiarità del caso, non potendo né rimanere super partes né essere superficiale, in via del tutto eccezionale, ho scritto in prima persona. In un caso così polarizzante come è stata questa stagione, la recensione deve prendere una piega opinionistica e, ora, sapete con chi prendervela.
Una Elegia in tre parti
Questa scelta di tono più sobrio è perché dobbiamo dire addio definitivamente a un percorso durato 2 giorni, 23 ore, 17 minuti di visione, complessivamente. Un viaggio inclemente verso i personaggi che ci hanno accompagnato, durante un gioco al quale o si vince o si muore e che ci ha promesso quasi sin dall’inizio che non avremmo visto un lieto fine.
Dobbiamo congedarci dai nostri personaggi preferiti, dire addio alle nostre teorie incompiute, addio alla fine che speravamo di avere. Poiché una delle fasi dell’elaborazione del lutto è la rabbia e la vostra rabbia si è vista online nelle scorse settimane. Ma siamo qua a fare una recensione, e ad essere il più oggettivi possibili. Bisogna spogliare la nostra reazione dal lutto del non aver potuto vedere compiersi il finale in cui speravamo.
Quindi la vostra rabbia è parzialmente scusata ed evidenzia quanto le persone siano state emotivamente coinvolte da questa storia. Bisogna ricordare, però che per guardare GoT è sempre stato necessario avere una sorta di vena masochista. È pur sempre la stessa serie che ha ucciso il protagonista nella prima stagione, una serie che fa trionfare i villains più spesso di quel che vorremmo, una serie che ci fa sperare in una giustizia divina per poi negarcela. In fondo, nel bene e nel male, abbiamo sempre guardato Game of Thrones perché ci sapeva sorprendere e questa stagione, non c’è che dire, ci ha sorpresi.
Il Ghiaccio: Quello che non è andato per il verso giusto
Che c’avete fretta?
Senza mezzi termini, possiamo tutti concordare che la stagione è stata decisamente frettolosa, ad alcuni ha dato meno fastidio che ad altri, ma rimane un dato di fatto. Il passo è accelerato a velocità smodata rispetto alla prima stagione, durante la quale il viaggio da Gran Inverno ad Approdo del Re è durato varie puntate. Arriviamo all’ultima parte di questa stagione e, invece, vediamo svolgersi eventi che ricoprono un arco temporale di intere settimane in un unico episodio.
Profezie incompiute
Per spezzare una lancia a favore degli sceneggiatori, vi è da dire che molte profezie che abbiamo trovato nei libri non vengono assolutamente citate nella serie. Il termine Valonqar non esiste nell’adattamento, esattamente come la parte di Quaithe è fortemente tagliata e la profezia di Azor Ahai storpiata e ridotta a poche righe. Quindi, tecnicamente, non abbiamo visto delle profezie della serie non compiersi.
Ci dispiace per tutti i sostenitori del “Drago ha Tre Teste”, del “Tyrion o Jaime uccideranno Cersei”, “Spada nel cuore di Nissa Nissa” et alia, semplicemente sono parti rimaste sulla pagina e mai arrivate sugli schermi.
Rimane, però, il fatto che le profezie sono un tema ricorrente nelle Cronache di Ghiaccio e di Fuoco e un paio ne vediamo anche nella serie, addirittura recentemente: il Principe Promesso è stato citato nella settima stagione da Melisandre. Eppure non vi è stata una conclusione calzante esattamente di questa profezia. La morale della favola potrebbe essere che tutto l’aspetto mistico-religioso non sia mai una scienza esatta e, semplicemente, le “interpretazioni” citate da Melisandre non fossero state corrette. Nonostante ciò, rimane lo stesso un po’ di amaro in bocca (nonostante quella scena di Arya sia stata uno dei momenti più epici dell’intera serie).
Pantsers vs Plotters
Avete mai sentito questi termini? Sono due metodi di scrittura narrativa. Martin, per esempio, è un noto pantser. Ha rimarcato spesso il fatto che i suoi personaggi sono semi gettati in terreno fertile e che lui li osserva crescere. In questo stile di scrittura sono i personaggi ad avere il controllo sulla storia, lo scrittore li mette a cospetto di decisioni e, in base al carattere del personaggio, emergono delle scelte, le quali poi plasmano la trama.
Benioff e Weiss, contrariamente, sono stati obbligati a fare il ruolo di plotters. Gli è stato fornito un finale da Martin e, dunque, hanno dovuto fare una sorta di reverse engineering della trama dalla sesta stagione fino alla fine della serie. Questo li ha portati a scandire le due stagioni rimanenti in base ai passaggi di trama obbligatori per arrivare alla conclusione concordata. In questo stile di scrittura è la trama ad avere il potere sui personaggi, ed è per questo che molti istanti dell’ultima stagione sono sembrati forzati.
Nessuno dei due stili è giusto o sbagliato, ma è chiaro che, dopo sei stagioni sviluppate da un pantser, un finale in puro stile plotter risulti stridente.
Secondo Scientific American, l’effetto dissonante rispetto alle precedenti sei stagioni è causato dal fatto che lo storytelling sia passato dall’essere di natura sociologica all’essere di natura psicologica. Ad ogni modo, qualcosa è cambiato e, forse, l’unico grosso problema non è stato il come fosse cambiato ma il fatto di per sé che fosse cambiato.
Una trama alquanto lineare e assenza dei colpi di scena della vecchia scuola
A causa della modalità plotter degli sceneggiatori si è verificata anche una linearità poco emblematica della serie. Le partite di tennis a colpi di strategia che hanno caratterizzato le precedenti stagioni sono state sostituite da scalini di trama obbligatori, in linea retta.
Forse, questa mancanza non poteva essere rettificata aggiungendo solo qualche episodio in più. Forse, come disse Martin stesso, ci sarebbero volute un paio di stagioni aggiuntive. Purtroppo non le abbiamo avute, nonostante la disponibilità di HBO. Potremmo essere pressapochisti e dire che Benioff e Weiss, evidentemente, avevano voglia di accettare nuove sfide nell’universo di Star Wars, ma sappiamo benissimo che nel mondo dell’intrattenimento non è così semplice. Avrebbe voluto dire “bloccare” tutti gli attori dei personaggi rimasti in vita dal poter accettare altri progetti. Potremmo non aver avuto Dark Phoenix o The New Mutants, perché Sophie Turner e Maisie Williams avrebbero avuto le mani legate, per esempio.
L’utilizzo dubbio del poco tempo a disposizione
Allo stesso tempo, quel poco di tempo rimasto è stato impiegato in modo strano. Il passaggio del tempo sembra erratico. Mi elude come si possa scegliere un’inquadratura di notevole lunghezza di Arya mentre impersona Gandalf con Ombromanto al posto di un dialogo aggiuntivo per rendere i cambiamenti caratteriali di Daenerys meno improvvisi. O un intero episodio dedicato alla quiete prima della tempesta, con scene davanti al focolare, raccontando del latte di gigantessa mentre altri personaggi condividevano momenti intimi, per poi culminare con Podrick in versione Peregrino Took a cospetto di Denethor. Il problema vero è che quelle scene le volevo, le volevamo. Poetiche, un ottimo esempio di slice of life, un momento di empatia con i nostri eroi, una visione più piccola e semplice delle singole vite dei personaggi, nel mezzo della gigantesca macchina delle Cronache. Ma non a costo di sacrificare un degno svolgimento dei punti chiave della trama. Volevo una stagione meno monopolizzata dall’azione e integrata con quella sana dose di strategia politica che ci ha appassionato per otto anni. Però questo è volere la botte piena e la moglie ubriaca, perché vorremmo sempre “di più” di qualsiasi storia ci abbia catturato.
Le strategie erronee
Questo è stato uno dei punti di critica maggiore e, nonostante siamo nella pagina di “ghiaccio”, in cui dovrei parlare di cosa sia andato male, mi trovo a difendere questo aspetto. Forse non ci siamo resi conto che, nel passare delle stagioni, abbiamo perso per strada tutte le grandi menti dei Sette Regni. I tempi di Tywin, Olenna, Ned Stark, Stannis et alia sono finiti. Il mondo è stato ereditato da un gruppo di ragazzini, sostanzialmente, o persone che hanno avuto successo fino a quel momento grazie all’appoggio di personaggi più stagionati. Adoro l’idea che i personaggi principali possano fare delle scelte erronee e mandare i Dothraki al massacro, sapendo che il campo aperto è il loro punto di forza ma non considerando la superiorità dello sciame di non morti. Perché è stato uno dei punti che ci ha regalato uno dei maggiori capolavori di fotografia della stagione.
…e qua si passa a quello che è stato reso veramente bene.
Il Fuoco: quello che invece ha funzionato
La Colonna Sonora
“Oh ma vi siete ridotti veramente male se per parlare bene di GoT vi aggrappate alla musica”.
No. Ascoltate. Letteralmente, ascoltate. Fate finta sia il 1999 con MySpace, mettete play al video del Tema del Re della Notte e finite di leggere, perché qui bisogna dare a Ramin Djawadi quel che è di Ramin Djawadi.
Non sarei onesta con me stessa se non menzionassi questo capolavoro perché è stata la mia ossessione musicale per le ultime tre settimane. Due note, speculari, e variazioni sul tema: il Tema del Re della Notte è struggente e di qualità elevatissima, non si vede un approccio così minimalista dai tempi d’oro di Georg Friedrich Handel. Djawadi si è ulteriormente superato nella penultima puntata, sostanzialmente citando sé stesso. Nel momento della morte dei gemelli Lannister suonano due noti temi, sentiti nelle previe stagioni. “Light of the Seven”, tema di Cersei quando fece esplodere il Tempio di Baelor, e le celeberrime “Piogge di Castamere”, in versione mashup mentre i significati di quei due brani, precedentemente emblematici delle vittorie dei Lannister, si ritorcono contro di lei. Per chi è meno purista di me, c’è anche l’altra chicca della stagione: Florence and the Machine in una incredibile interpretazione di Jenny of Oldstones.
La Cinematografia
Qui non vi è bisogno di dilungarsi troppo: la regia, la fotografia, gli effetti speciali, il casting, i costumi, tutto voto dieci. Anche il criticatissimo terzo episodio, infamato per essere troppo buio, l’ho trovato essere una scelta artistica notevole. Volevano terrorizzarci con l’ignoto e hanno ampiamente raggiunto il loro obiettivo.
Il set di Approdo del Re è stato costruito ex novo in un terreno nei pressi di Belfast, contrariamente alle stagioni precedenti, in cui gli episodi sono stati filmati a Dubrovnik, per concedersi la distruzione totale della città. Nei costumi c’è una attenzione certosina ai dettagli (avete visto che sull’armatura dorata di Brienne c’è un piccolo corvo stilizzato, il nuovo stemma di Bran?) ma dei simbolismi ne parliamo più approfonditamente qui sotto.
Gli archi narrativi e il Simbolismo
Nonostante la vastità di critiche sul distaccamento tematico dai libri, ho trovato l’uso di simbolismo veramente efficace e coerente con la Lore.
La mappa di Westeros nel cortile del Red Keep
In questo preciso punto succedono cose tematicamente interessanti.
- Tyrion: Il nostro folletto, nell’ultimo episodio, cammina sulla mappa nel cortile, trafitta da una crepa (visibile anche nella sigla), circondata da neve, cenere e dalle macerie. Tyrion letteralmente cammina sul paese spezzato, in rovina, mentre la sua principale preoccupazione è scoprire le sorti della sua famiglia.
- Arya e Sandor Clegane: Su quella mappa la nostra coppia omicida preferita si dà l’addio. Sandor va a completare il suo arco di redenzione e Arya, che ha improntato tutta la sua vita sulla vendetta, la lascia andare. Una scena in contrapposizione al ritrovo di Jaime e Cersei, nello stesso punto. Jaime non riesce a portare a termine il suo cambiamento, non potendosi disintossicare da Cersei, contrariamente a Clegane, che affronta la sua più grande paura, sacrificandosi al fuoco, pur di portare a termine la sua missione. Cersei e Daenerys, invece, sono speculari ad Arya, la quale rinuncia al rancore, pur di dire nuovamente “non oggi” alla morte. Le due regine non riescono a retrocedere dal loro cammino vendicativo, portandole entrambi alla loro fine.
Jaime e Brienne
Per coloro che pensano ancora che l’arco narrativo di Jaime sia stato un “buttare dalla finestra sette stagioni di sviluppo”, le parole di Brienne nel Libro dei Cavalieri dovrebbero cementificare, invece, quanto esso abbia influito nella storia. Forse non è arrivato a meritarsi la redenzione in vita ma l’ha ampiamente ottenuta postuma.
Le trecce di Daenerys
Forse per alcuni sarà come scoprire l’acqua calda, ma le trecce di Daenerys sono fortemente collegate alla Lore di Essos. È una tradizione Dothraki che la porta ad aggiungere una treccia per ogni vittoria sul campo. Nel quinto Episodio, la troviamo, abbattuta, emaciata ma, soprattutto, con le trecce sciolte. Un vero e proprio simbolo di sconfitta, per poi tornare, alla fine dell’olocausto della capitale, con una testa incoronata da trecce, più numerose che mai, con il significato implicito che la nuova villain della stagione, reputi il massacro una vittoria.
Daenerys e l’Ambivalenza
La cosa più interessante dell’arco narrativo della madre dei Draghi è la dualità con cui è stato portato avanti. In retrospettiva vi erano tanti indicatori di un eventuale Reggente illuminato quanto di un Tiranno megalomane. Ci hanno tenuto in bilico tra queste due figure, coesistenti nel personaggio di Daenerys. Il vero lancio della moneta, citato da Varys, non è avvenuto alla sua nascita, è avvenuto sul campo di battaglia. Potrei scrivere, forse, un’intera tesi sulla psicologia dell’emarginazione e della necessità del senso di appartenenza, ma non vi tedierò, farò solo un ulteriore cenno musicale. Dei temi esotici sono ricamati nel Tema dei Targaryen, il quale ondeggia tra gli archi indicativi di Westeros e (correggetemi se erro, mi pare un Duduk) uno strumento a fiato originario del Caucaso, per riecheggiare l’esoticità di Essos e Valyria, nello specifico. Riassumo Daenerys semplicemente come un personaggio costruito in modo eccelso per essere ambivalente: martire e tiranno, di Essos e di Westeros, portatrice di vita e omicida, vittima e villain.
Jon, la vergogna e Spettro
L’arco narrativo di Jon pare lo porti esattamente dove ha iniziato. Mi perdonerete una semi citazione Proustiana, il percorso di Jon non è stato raggiungere terre nuove ma tornare con occhi nuovi. Lui andò sulla barriera per vergogna di ciò che fosse, per ragioni di forza maggiore, per essere un figlio bastardo. Si è vestito di nero pentendosi della sua stessa esistenza, per fattori fuori dal suo controllo. Nell’abbandono di Spettro è celato un abbandono della sua natura Stark, un’indole indipendente, libera, umile, per inseguire i Draghi, o meglio, il suo lato Targaryen. Con il suo ritorno al Nord e con il ricongiungimento col suo metalupo, Jon abbandona “Aegon” e, con lui, l’ambizione, i titoli, il sangue del Drago, a favore della libertà, a nord della barriera, con i bruti. Torna al nero, sempre nella vergogna, ma, finalmente, a causa di una azione di sua scelta, padrone di sé stesso.
Concedetemi due menzioni d’onore prima del dulcis in fundo. Certo, gli archi di Brienne, Bronn, Samwell e Tyrion sono stati soddisfacenti, ma qua stiamo ancora parlando di simbolismo, no? Quindi bisogna menzionare Davos, che con il suo nuovo utilizzo di grammatica corretta, porta avanti la fiaccola, sì, del nostro Stannis ma, soprattutto, la memoria di Shireen, che gli insegnò a leggere. In secondo luogo Arya, sembrerà una cosa da poco ma vedere il sigillo Stark spiegato sulle sue vele mi ha emozionato non poco. Non è più Nessuno, è Arya Stark di Winterfell, e si porta il Nord con sé, ovunque vada.
Infine, bisogna parlarne, si è concluso il migliore arco narrativo di tutta la serie, quello di Sansa Stark.
Sansa e l’indipendenza
Tutti coloro che hanno accusato la serie di essere sessista sono invitati a leggere questa parte con attenzione.
Sansa, inizialmente, era quella ragazzina disposta a sottomettersi alla persona più vile dei Sette Regni, Joffrey, pur di diventare Regina, vivere nell’agio, nel lusso sfrenato. La sua missione era scegliere, semplicemente, la migliore persona a cui sottomettersi, da cui dipendere. Sansa riesce a tramutare la sua oppressione in insegnamenti. Fino ad arrivare ad essere il Lupo allevato da Leoni, una stratega in grado di circumnavigare una mente contorta come quella di Ditocorto, di riunire tutti i Lord di Westeros nell’Arena dei Draghi per un dibattito civile.
L’indipendenza del Nord è simbolica dell’indipendenza individuale di Sansa. Lei cede i maggiori lussi che otterrebbe da sorella del Re, a favore del riabbracciare le proprie radici, più umili, più sobrie, più Stark ma senza più doversi sottomettere a nessuno.
Si fa incoronare indossando un abito con sopra ricamate le foglie degli Alberi Diga (Weirwood), simboli del Nord, degli Dei da loro venerati, diversi dai restanti Sei Regni, simbolo delle radici che collegano tutta la sua famiglia e un cenno a suo fratello Bran, il quale utilizza gli alberi Diga per “vedere”. Lunga vita alla Regina del Nord.
Nonostante le critiche e gli errori, nonostante l’ottava stagione, GoT rimane un capolavoro.
La Stagione non è stata al pari di tutto ciò che la ha preceduta, ma ci ha donato delle degne conclusioni ai personaggi nei quali abbiamo investito 8 anni di tempo. Non volevo che finisse. Vorrei altre otto puntate come la Seconda, di scorci di vita, di dialoghi, di retroscena. Avrei voluto sentire la fine della barzelletta di Tyrion che prova a raccontare sin dal Nido dell’Aquila e sapere cosa ci faccia in un bordello con un alveare e un asino. Sapere che sono già in produzione gli spin-off non è sufficiente per rincuorarci definitivamente. Questo ultimo Episodio, però, ha regalato anche a molti degli spettatori più scettici una conclusione che ci concedesse di congedarci dai nostri personaggi preferiti a cuor più leggero. Di poter elaborare il nostro lutto. Di poter finalmente dire and now our watch has ended.