Il cilogrammo non è più come lo conosciamo. Dal 20 Maggio si è (finalmente) digievoluto, insieme a tutte le altre unità di misura del Sistema Internazionale, diventando più affidabile, fancy ed estremamente più complesso. Ma perché si è arrivati alla nuova definizione di chilogrammo? C’era proprio bisogno di complicare le cose, mettere in mezzo la meccanica quantistica? Non eravamo contenti del bel cilindro di Platino Iridio conservato a Parigi? Facciamo un passo indietro a come stavano le cose prima.
Il chilogrammo, com’era prima
Fino al 20 Maggio, un chilogrammo era definito come la massa di un cilindro di Platino Iridio, conservato in atmosfera controllata al Pavillon de Breteuil. Ad essere sinceri, anzi, non era uno solo. Erano 8, identici, conservati in teche separate, e un chilogrammo era pari alla media delle loro masse.
Erano tanti, in effetti, ma questa scelta era dettata dalle necessità. Nonostante il Platino Iridio sia un metallo molto stabile, che tende, insomma, a restare com’è, tutta la materia ha il brutto vizio di cambiare: reazioni chimiche, nuovi legami, molecole che, semplicemente, si staccano, per un motivo o per un altro. Per dirne una, controllando i cilindri-campione al passare del tempo, si era notato come le loro masse divergessero, andando ognuno per la sua strada e senza alcuna speranza di reincontrarsi dopo qualche anno a Fishman Island.
Se questi sono effetti che nella vita di tutti i giorni non creano nessun problema, quando si parla di misure di precisione la questione di un’unità di misura che cambia, seppur di pochissimo, è scocciante assai.
L’altro fattore poco convincente delle vecchia definizione era l’esistenza stessa dei campioncini. Mettete che uno scienziato volesse calibrare per bene la sua bilancia, non poteva far altro che andare all’ufficio dei pesi e delle misure ed utilizzare il Big K, il famoso cilindro. I problemi, insomma, erano grossi e conosciuti da tempo, ma trovare una soluzione non sembrava essere tanto semplice.
Per le altre unità di misura era stato un pochino più facile e, in principio, i metodi adottati erano due: definirli tramite un processo estremamente costante, nello spazio e nel tempo, come le oscillazioni tra due livelli energetici dell’atomo di Cesio utilizzate per il secondo, oppure basandosi su una costante fondamentale, vedesi il metro, ora una frazione piccolissima dello spazio percorso dalla luce in un secondo.
L’idea, per il chilogrammo, era quella di usare la seconda opzione e definirlo attraverso la costante di Planck.
Unità di misura e meccanica quantistica: la costante di Planck
La costante di Planck è il biglietto d’entrata nel fantastico mondo della meccanica quantistica, quello con i gatti sia vivi che morti e la gente che, se sa che velocità va, si perde. Ma qual è il suo significato?
Nei primi vent’anni del novecento, in mezzo a tutto quel casino, la fisica veniva rivoluzionata. Tipo, fino a qualche tempo prima, erano tutti sicuri che l’universo fosse continuo, che si potesse passare da un’energia all’altra senza fare salti e invece *puff*, tutte queste convinzioni sparirono. In pratica le spiegazioni per alcuni fenomeni (quali, per citare solo i più famosi, l’effetto fotoelettrico e quello Compton), prevedevano che l’universo fosse discreto, fatto a scalini, invece che continuo. Gli scalini erano solamente molto piccoli e nella vita di tutti i giorni uno non se ne accorgeva: un po’ come quando guardate lo schermo del vostro smartphone non vi rendete conto che è fatto da piccolissimi quadratini, i pixel.
Insomma, l’energia non poteva propagarsi in quantità a piacere, ma doveva muoversi in piccoli pacchetti, unità fondamentali chiamate quanti. Ed ecco che arriva la costante di Planck, si intromette a gamba tesa e decide quanto valga l’energia che può trasportare un fotone, il quanto di energia elettromagnetica: E=hv
La più piccola quantità di energia che può trasportate un fotone è pari alla costante di Planck, moltiplicata per la sua frequenza.
Ora che abbiamo un’idea (almeno vaga) di cosa sia la costante di Planck, bisogna collegarla al chilogrammo.
La bilancia di Watt: la nuova definizione di chilogrammo
Abbiamo bisogno di una bilancia di Watt, dei superconduttori, altri effetti quantistici e un po’ di fantasia.
La bilancia di Watt, concettualmente, non è diversa dalla bilancia a bracci che usava vostra nonna, di quelle che solo a guardarle vi sentivate un poco più alchimisti. Potete immaginarvela con due piatti, su uno mettete la massa che volete misurare, sull’altro invece mettere una bobina percorsa da corrente e la immergete in un campo magnetico. L’interazione tra il campo magnetico e la bobina (ammesso che stiate facendo girare la corrente nel verso giusto), genererà una forza che si opporrà alla forza peso della massa posta sull’altro piatto, a questo punto non dovrete far altro che variare la corrente finché non è tutto in equilibrio.
E con questo, quindi, siamo riusciti a trasformare la misura di una massa in una misura di corrente elettrica, ma non ci abbiamo ancora infilato la costante di Planck che tanto volevamo. Per ficcarcela, al solito, bisogna passare per il mondo dell’infinitamente piccolo: aggiungete una spolverata di effetto Hall quantistico ed effetto Josephson e il gioco è fatto. Questi due effetti, infatti, combinati, permettono di associare la corrente elettrica che avete misurato a quantità squisitamente quantistiche, facendo spuntare tutte le costanti di Planck che vogliamo.
A questo punto non resta che misurare, con la bilancia di Watt, un chilo, contare “quante costanti di Planck è” e ridefinirlo.
Difficile assai, il processo, ma era per una buona causa. Io adesso me lo vedo il nuovo chilogrammo, prima bullizzato dalle altre unità del Sistema Internazionale, che si va a tagliare i capelli, si mette lo smoking e va agli eventi di gala insieme agli altri.
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