Okja è un super maiale.
Uno dei 26 creati in laboratorio da una multinazionale e poi dati da crescere, per 10 anni, a 26 fattori di diverse nazionalità.
Chi si sarebbe mai aspettato che una di queste creature destinate al macello sarebbe diventata la migliore amica di una ragazzina che vive sulle montagne della Corea del Sud?
Tutti ovviamente, ma questa è solo la premessa del film.
Quando Mija, quattordicenne coreana, viene separata dal suo amico, comincia un'odissea che è una via di mezzo tra una favola e un proclama animalista.
Il film di Bong Joon Ho, originale per Netflix rilasciato il 28 giugno di quest'anno, ha tanti difetti ma, se lo si guarda senza pregiudizio, ha anche il potere di commuovere.
Abbiamo una giovane che non si rassegna alla perdita di quello che per molti è solo un capo di bestiame, ma che per lei è un membro della famiglia.
Abbiamo una controparte che vede gli animali come semplice fonte di cibo, calpestando qualsiasi tipo di legame sentimentale che sia sorto. Si parla di business nulla di più, nulla di meno.
E in mezzo c'è un'associazione animalista che cerca di salvare Okja senza ricorrere ad alcun tipo di violenza e noi, le gente, che veniamo manipolati un po' da tutte le fazioni. Rimbalzati da una parte all'altra, tra il sentimento e la logica.
Volendo essere cinici e obiettivi è un film meno ingenuo di quanto sembri. Lo si nota soprattutto nel finale, di cui certo non vi diremo nulla.
Le creature chiamate super maiali stimolano la nostra compassione, anche perché in alcune scene mostrano un'intelligenza particolarmente sviluppata e c'è quel momento, se si è in una condizione di delicatezza emotiva, in cui si sente in colpa per il solo fatto di mangiare carne.
Il nostro essere onnivori implica che ci si possa cibare anche di altri esseri viventi. Questo però non vuol dire che per procacciarci il cibo siamo legittimati a trattare gli animali in maniera brutale.
Da qui in poi, ovviamente, và a discrezione della singola persona come gestire la propria alimentazione, a cosa rinunciare e a cosa no.
C'è la possibilità di aprire una discussione a riguardo, che non si riuscirebbe a chiudere tanto presto. D'altronde nella vita reale non ci sono linee di demarcazione che definiscono gli assoluti. C'è sempre spazio per il cambiamento e il dialogo.
Ogni adulto che ha un ruolo predominante è pieno di difetti, non sono figure positive ma nemmeno a rifletterci bene, assolutamente negative. Sono esseri umani.
Tilda Swinton ha un che di inquietante, proprio la caratteristica di cui il suo personaggio ha bisogno. La donna immatura che tenta di risollevare le sorti di una multinazionale dalla pessima nomea. A tentare di fermarla il Fronte di Liberazione degli Animali (FLA) capeggiati da un Paul Dano altrettanto tormentato, che cerca di rimanere fedele al credo dell'associazione in una maniera quasi distorta. Sebbene alla fin fine sia un personaggio di base positivo, ha determinati comportamenti che lo ritraggono al limite della sanità mentale.
Poi salta fuori Steven Yeun, e a tutti i fan di The Walking Dead si stringe il cuore.
Il personaggio di Jake Gyllenhaal nella sua disperazizone diventa una macchietta. Uno zoologo e personaggio di spettacolo dimenticato, che viene assunto per diventare il volto di un'azienda odiata. Forse narcisista, forse dimentico di se stesso, non sa bene neanche lui cosa sta facendo e per quale ragione.
Visto in lingua originale c'è un apprezzatissimo utilizzo sia del coreano sia dell'inglese americano, ogni personaggio utilizza l'idioma della sua nazione di appartenenza, com'è giusto che sia, poiché l'incomprensione linguistica gioca un ruolo importante nello svolgersi degli eventi.
È un film che non funziona sempre, ma che fa bene vedere una volta, quando si vuole qualcosa di semplice ma non troppo leggero.