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La sala da tè dell’orso Malese

Sigfrido è un orso malese, e di quelli eleganti. Porta gli occhiali, si veste con camicia e panciotto, gestisce una sala da tè con certosina cura ed estrema attenzione al cliente. Sarà per il fatto che è l'unica cosa che è rimasta nella sua vita, dopo due grandi perdite. Anche perché la sua clientela non scherza, in quanto a problemi e vite irrisolte: uomini, superuomini o animali che siano, c'è sempre il bisogno di affacciarsi sulle loro vite e provare a consigliarli, a suggerire un modo perchè le risolvano o aspettare che lo trovino da soli. Perchè La sala da tè dell'orso malese è un ambulatorio psico-animico, insomma un rifugio per anime ferite. 
Questa è la premessa della graphic novel di David Rubin, astro nascente del fumetto spagnolo, pubblicata da Tunué e strutturata come una collezione di racconti. E questo posto dalla doppia natura diventa il crocevia dove i fili di svariate storie s'intrecciano. Sono storie brevi, brevissime: frammenti di storie quasi. L'intero mondo in cui si svolgono le vicende è sfumato, poco definito, potrebbe essere tutto e il contrario di tutto. Ci sono Batman e Superman (si chiamano Bruce e Adam in fondo), ci sono truppe militari dall'aspetto ottocentesco, eroi da film d'azione (con bambine a carico) e animali antropomorfi.  
Ma a questa varietà di facce e costumi, alla multiformità indefinita del mondo, non corrisponde una varietà di storie: anzi, in buona parte sono storie molto simili fra loro. Ci sono praticamente sempre uomini rimasti soli, reduci da un amore concluso, o in procinto di incrinarsi, o spezzato dalla tragedia, e quasi sempre portati ad affrontare quella mancanza. Le donne sono sempre presenti ma mai come protagoniste: sono oggetto di amore furente o conflittuale, di nostalgia e senso di colpa, sono occasioni (vane?) di riscatto, sono una figlia da proteggere o una crudele regina che ti infliggerebbe qualunque tipo di dolore per averti. Mettiamo le mani avanti: non si sta tacciando questo fumetto di maschilismo, perché non ce n'è traccia.
Quest'argomento, piuttosto, serve per avanzare un altro tipo di critica a La sala da tè: ossia il fatto che sembra non andare oltre al frammento, alla collezione di bozze. Le storie sono molto corte, spesso raccontate in uno stile volutamente ingenuo (fate attenzione alla punteggiatura: ci sono molti puntini di sospensione, molte esclamazioni, molti '?!', non ci sono punti fermi). E se non è necessaria una cura dei dialoghi da serie TV anglofona, anzi può essere una precisa scelta stilistica, un problema maggiore è che le storie sono troppo brevi per affezionarsi ai personaggi, le scelte decisive troppo rapide e impetuose. I personaggi tratteggiati poco, spesso definiti solo per quello che gli manca e li fa rodere, ma non abbastanza sviluppati – almeno per chi scrive – da potere tenere a loro e farsi intenerire dai loro fallimenti (c'è un personaggio che per chi scrive è invece emerso, il generale Jacques Marfil, e paradossalmente è al centro dell'unica storia in cui quel continuo tema, la donna assente, proprio non c'è. E' quasi una sorta di intermezzo, la storia del discorso del generale ai suoi uomini prima di un assalto suicida, e alla fine è sembrata il momento più interessante della graphic novel. E' un segno?).
David Rubin ha uno stile molto particolare che si sposa con la voluta ingenuità del racconto, che sa anche farsi variegato nel tratto (da momenti di calma e tinte unite a violenti sfoghi di curve e neri marcati) e cerca anzi di tramutare elementi 'fiabeschi' – gli animali antropomorfi, i supereroi, le creature mitologiche – in un qualcosa di onirico, metafisico quasi, legato ad emozioni e avvenimenti totalmente umani. Il fascino del suo disegno e delle idee rimane, quindi non possiamo che augurarci che possa metterli al servizio di una storia più compiuta o semplicemente di personaggi ai quali sarà più facile affezionarsi.
Siamo caduti vittime di un arguto giro di parole, ammaliante, consigliato ma "da capire".

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