Afferrò il vaso, quello che sarebbe dovuto essere un cimelio di antiche civiltà dimenticate, con entrambe le mani e lo scagliò contro il muro. Il rumore della ceramica che andava in frantumi gli diede un piacere quasi fisico, mentre i pezzi piovevano sul parquet lasciandovi graffi e solchi. Si fermò solo un istante per assaporare il gusto della distruzione quindi prese il fermacarte a forma di piramide e lo lanciò dall'altro lato della stanza, come un giocatore di baseball che punta a fare un home run. L'oggetto non si ruppe e cadde a terra con un tonfo quasi metallico, al contrario la parete parve perdere petali di intonaco, neanche fosse un fiore lasciato morire senz'acqua.
Nonostante la soddisfazione che provava non riusciva a chetare l'ira che gli bruciava i muscoli, i nervi, che gli faceva vibrare le ossa facendole tremare come se fossero sul punto di sbriciolarsi. Prese i documenti poggiati sulla grande scrivania di legno e li strappò, andando avanti a farli in parti sempre più piccole fino ad ottenerne alcune che non sarebbero andate bene neanche per i coriandoli di Carnevale. Se avesse avuto sotto mano lo zio probabilmente avrebbe fatto a pezzi anche lui, e per riconoscerlo avrebbero dovuto ricorrere all'impronta dentale… e forse nemmeno quella avrebbe potuto aiutare. Ribaltò il piano di lavoro pensando che tutto si sarebbe potuto aspettare tranne un tradimento di quel genere, un vile affronto alla memoria del padre. Non riusciva a capacitarsi di come una mente umana potesse concepire una tale bassezza, a dispetto di tutto lo schifo di cui era stato testimone nel corso dei numerosi anni in cui aveva lavorato con loro.
Fuori dall'enorme porta-finestra un cane cominciò ad abbaiare, forse svegliato da tutto il rumore che proveniva dalla stanza.
Ormai aveva il fiatone, ma non c'era più posto dove sedersi, poco prima aveva sventrato la poltrona con il taglia-carte, non sapeva neanche lui come ci fosse riuscito, e aveva frantumato le gambe delle seggioline riservati agli ospiti. Si fermò respirando affannosamente al centro della devastazione e si guardò intorno, cercano qualcosa, qualunque cosa: la libreria era ancora intatta, era stata stranamente scampata alla carneficina.
Con una mano prese il cestino di metallo, con l'altra si frugò nella tasca alla ricerca dell'accendino; lui non fumava ma era convinto che non si doveva mai andare in giro senza. La sua intenzione era strappare le pagine di ogni libro e bruciarle, lasciandone le copertine come pelli vuote di animali macellati.
Eppure quando ebbe il primo tra le dita avvertì un inspiegabile senso di pace. Fu una sensazione che durò solo un istante ma lo turbò abbastanza da instillargli qualche dubbio sull'utilità di bruciarli tutti. Se lo rigirò tra le mani, facendo scivolare i polpastrelli sul cuoio morbido, ne accarezzò gli angoli e la rientranza del titolo scritto in caratteri dorati: “I demoni opera di Fëdor Michailovič Dostoevskij”. Era uno di quei volumi finemente rilegati ma dalle pagine troppo sottili, simili a carta velina, con la luce della porta-finestra poteva vedere le parole nere su entrambe le facce del foglio. Le lettere si mescolavano, confondendosi e conoscendosi per la prima volta, vicini di casa che non avevano mai occasione di incontrarsi.
Quand'era stata l'ultima volta che aveva letto un libro? Che si era fermato e si era preso un attimo di tempo? Non lo sapeva, non ricordava.
Si pulì le mani coperte di polvere sui jeans coperti di polvere, starnutì e si guardò intorno sperduto, forse senza capire cosa ci facesse effettivamente lì e che cosa avrebbe dovuto fare da quel momento in poi.
Una parte di lui, il bambino che aveva dovuto mettere a tacere a forza appena uscito dall'adolescenza, voleva piangere per se stesso, per suo padre, per suo zio. L'adulto che era diventato si era impossessato troppo bene di quel corpo così i suoi occhi rimasero asciutti e il suo cuore greve.
Allora si sedette sui detriti di quella vita che era appena finita e cominciò a leggere.
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