Se oggi qualcuno mi chiedesse di parlargli della prima guerra mondiale, ci sono ottime probabilità che le prime due parole ad uscirmi dal pappatoio sarebbero: "Gavrilo Princip, il maledetto studente serbo". Se è vero, come diceva il grande Gaetano Salvemini, che "la cultura è ciò che resta dopo aver dimenticato tutto ciò che si è studiato", ciò che è rimasto a me di quell'infame quadriennio è proprio il nome del giovane nazionalista servo-bosniaco, pretestuoso casus belli e proverbiale goccia ammazza-tensione-superficiale.
Perché?
Forse perché, al tempo, il fatto che un solo uomo potesse aver scatenato – a prescindere dalle "favorevoli" contingenze sociopolitiche – tanto caos, mi sconvolse.
O, più semplicemente, perché sono un essere umano (all'incirca), e – diciamolo – noi terricoli abbiamo un disperato bisogno di dare la colpa a qualcosa o qualcuno, un ente univoco, un nemico che ci permetta di indirizzare "correttamente" la furia del nostro comune dissenso.
E – diamine – siamo incredibilmente bravi a fare la pace quando c'è da fare la guerra.
Scusate. Come al solito mi perdo in chiacchiere cervellotiche e finisco per blaterare a caso.
Allora, dove eravamo….ah già! Gavrilo Princip.
Per chi non lo sapesse, con il termine #GamerGate si intende quella particolare controversia internettiana nata e cresciuta sui forum di 4chan, 8chan e Reddit, a partire da una presunta ingerenza manipolatoria di stampo femminista, mossa ai danni della gaming culture e della stampa di settore.
In merito a quest'ultimo punto, “l'attentato” della sviluppatrice alla pacifica temperanza della gaming community, il casus belli della prima guerra mondiale videoludica, è stata la sua presunta relazione con un membro della stampa, l'editor di Kotaku Nathan Grayson.
Dopo aver ceduto alle grazie della Quinn, il povero Grayson sarebbe stato manipolato dalla sviluppatrice al fine di favorire mezzo stampa Depression Quest, il gioco della suddetta circea ammaliatrice. Tutte angherie svelate – opportunamente – dall'ex fidanzato della Quinn, giustamente irato per la di lei condotta.
Dapprima il movimento #GamerGate ha condannato il singolo caso (a suon di minacce e abusi di vario genere), poi la follia collettiva è arrivata a delineare tutta una rete cospiratoria di stampo femminista-minoritario, con un forte substrato di interessi collusivi nel rapporto stampa-industria.
Poi boom, la guerra.
Man mano che il fenomeno cresceva, raggiungendo nuovi picchi d'infamia, mi sono trovato ad arrovellarmi in riflessioni sulle radici profonde di questo odio traboccante.
Poi la comprensione mi ha attraversato come una freccia nel ginocchio (scusate) e mi sono pacificato.
Lo studente serbo, lo specchietto per allodole, la causa scatenante, il fottuto pretesto.
Il #GamerGate non è una storia di sessismo, misoginia, corruzione, collusione, etica e terrorismo, no, il #GamerGate è una storia di paranoia di massa e memetica virale.
Gavrilo Princip, Zoe Quinn, Charlie Hebdo, un proiettile, una trombata o una vignetta. Tutti emblemi, tutti bersagli di una massa umana alla disperata ricerca di un nemico contro cui schierarsi, uniti, a cui imputare le proprie sofferenze e i propri crucci o, più semplicemente, contro cui sfogare le proprie frustrazioni inconfessabili.
In fondo tutti noi soffriamo e ci angustiamo quotidianamente a causa di qualche forma di paranoia, una fantasia di cui perdiamo il controllo e che, pian piano, comincia a controllarci.
"La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri, unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie", diceva il pittore spagnolo Francisco Goya, e io – nel mio piccolo – sono perfettamente d'accordo.