Sarebbe facile dire che Devilman si basa tutto sul concetto di Bene e Male, dei cattivi contro i buoni.
Sarebbe facile ma anche estremamente riduttivo.
Era il 1972 quando Nagai Go, creatore di mondi, ha visto pubblicato per la prima volta il suo Devilman.
Ed è stato subito un successo.
Sebbene un po' rivisitato rispetto alla storia originale, la serie originale di Netflix rimane fedele all'opera di Nagai.
Ryo e Akira sono amici sin dall'infanzia, entrambi hanno una storia familiare che li rende un po' degli emarginati e subito sono legati da un feeling particolare.
Durante l'adolescenza i due, che per un po' di tempo erano vissuti lontani, si ricongiungono quando Ryo avvisa l'amico che i demoni esistono e vivono in mezzo agli uomini.
Per tentare di affrontarli Akira si fonde con il più potente di essi, Amon, diventando così mezzo umano e mezzo demone: un Devilman.
Il protagonista, una volta fusosi con la controparte demoniaca, viene assalito da brame di ogni genere, sessuali, di violenza, voglia di carne, scontro, sangue. Allo stesso tempo, nonostante la tempesta che lo investe, rimane puro e fa di tutto per proteggere le cose belle che ha conosciuto nella sua vita.
E intanto Ryo, quello tra i due che dovrebbe essere più sveglio ed equilibrato agisce muovendosi con una logica spietata, in maniera quasi disumana.
In seguito a determinati avvenimenti vedremo gli esseri umani comportarsi peggio del più crudele dei diavoli.
Si arriverà ad un certo punto in cui bontà e malvagità si fondo e si mescolano e non saranno i giusti a comportarsi come ci si aspetta.
Sicuramente non è una serie adatta a chi è facilmente impressionabile. Non perché si vedano scene truculente (che certo non mancano), ma per tutta l'atmosfera che permea la narrazione.
Come se non ci fosse più speranza, nonostante i personaggi non si diano mai completamente per perduti.
L'angoscia, dovuta ai colori, alle musiche, a tutto ciò che agisce sul subconscio, cresce mano mano che si va avanti con la visione, fino ad un punto in cui il senso di oppressione è quasi palpabile.
Che comunque vale molto la pena di essere vista.
Gli intermezzi rappati possono dare un qualche fastidio, se non piace il genere, ma danno un overview degli avvenimenti in una maniera assolutamente alternativa.
Lo stile grafico può creare qualche dubbio e, anche in questo caso, può non rientrare nei gusti personali, ma si adatta bene al tipo di storia che viene raccontata in cui niente è ben definito, non ci sono personaggi limpidi, non ci sono contorni che segnano la differenza tra le cose.
Come nella vita.
Il vero nemico di questa serie, l'antagonista che porta alla lotta e poi al finale della serie, è la paura. La paura che si insinua nel cuore della gente, di tutte le creature e le trasforma, derubandole della loro mente, del cuore e della ragione.
Creando esseri spietati e senza morale, vestiti di sangue e violenza.
Eppure, nonostante tutta la disperazione, la crudeltà, l'angoscia, soffocato dal dolore rimane un piccolo seme che con prepotenza si insinua quando la speranza muore.
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Concordo pienamente con la descrizione della serie. Particolarmente intenso è proprio quel senso di angoscia crescente che accompagna lo spettatore, ma anche un parallelo sentimento di tristezza e di abbandono che permea l’astante nella seconda metà della serie e che permane nitida fin ai titoli di coda dell’ultimo episodio.
Terminata la visione, l’angoscia lentamente si spegne, ma rimane la tristezza.
Devilman, nella sua ferocia diabolica, mantiene quella sensibilità commovente verso le sofferenze altrui: il pianto, anche nelle fattezze demoniache, è una trovata elegante e geniale, nella sua semplicità, che anzichè stonare con il feroce uomo-diavolo, ne conferisce ulteriore forza e bellezza.
Dal punto di vista della storia, ritrovo la trama, seppur non identica, del già prodotto “Amon: The Apocalypse of Devilman”, in cui le scene presentano una crudezza ancor più marcata e che, devo dire, mi lasciarono sbigottito, all’epoca.
Nel complesso mi è piaciuto. Effettivamente mi sarei aspettato uno stile grafico più curato, tuttavia, tolto il disappunto iniziale, direi che ci si abitua.