Cowboy Bebop: quella sera
È tardi, non conto più il tempo da cui sono in questo bar, saranno più di vent’anni. Lo sgabello al bancone è scomodo, soffice all’inizio ma poi ti ci abitui e via, tutto sparisce. Ne ho avuti tanti di drink nella mia mano, vado alla ricerca di quello che potrebbe svoltarmi la serata, nottata ormai, e non l’ho ancora trovato, forse l’ho perso di vista tra le mille etichette sulla mensola. Il tipo che pulisce è sempre lo stesso, ha tirato su tutte le sedie del locale tranne un tavolo per quattro. C’è musica nell’aria, le note danzano dal jazz al folk, senza disdegnare il country (Yōko Kanno risolverà il vostro problema). D’improvviso il proprietario mi tocca la spalla e mi dice di andarmene, il locale è riservato da qui in poi. La scritta sul foglio dice: Cowboy Bebop.
Ed: credo di saperlo, non credo di saperlo…
Io non ci sto, non ho ancora trovato il drink giusto, e poi chi diavolo è Cowboy Bebop. Quello mi affronta a muso duro, non è un suo problema. Oggi l’ignoranza è una scelta. Non ho voglia, ma sarò costretto ad alzargli le mani. La musica accelera e lo leggo come il segnale, ma poi qualcuno entra dalla porta. È una ragazzina dai capelli rossi arruffati. È così minuta e scarna che non capisco se sia effettivamente femmina, mi ricorda più un felino dalla pelle scura. Dietro di lei zampetta un Welsh Corgi dal pelo marroncino, mi guarda con uno sguardo che tradisce intelligenza e poi saltella a raggiungere la sua padrona. Sicuramente la loro entrata ha smorzato l’atmosfera pesante, mi è passato di mente fare a botte.
Faye: le promesse esistono solo per non essere mantenute
Il proprietario mi lascia stare, gli indica il tavolo già preparato. La ragazzina si siede gambe incrociate e inizia a sbattere le posate, chiamando il pasto. La porta si apre di nuovo, lo stacco di gambe della nuova arrivata è di un altro pianeta. La donna cattura al volo la mia attenzione, sensuale, bella, indomabile. Non mi guarda neanche e si siede di fianco all’iperattiva, non degna di un’occhiata il cane. Allunga le gambe sul tavolo e si lascia andare in commenti indolenti, sul posto, sull’ora, sulla compagnia. Sembra portare con sé l’ombra di un passato dimenticato, ha paura anche se tiene a nasconderla. Abbandonare prima di essere abbandonati sembrano dire i suoi gesti, il suo carattere. Forse non è proprio l’ora di andare a casa, mi dico.
Jet: non cerco vendetta, è già tanto difficile sopravvivere
Due sedie sono ancora vuote, dubito una sia per il cane. Il terzo ospite è un bestione di un metro e novanta, con una barba che ha vita a sé, una cicatrice sull’occhio destro, il braccio sinistro meccanico e una placca metallica sotto l’orbita destra. Il mio istinto urla di stargli lontano, se io sono un cane randagio, lui è un lupo. È il padre-fratello maggiore di quel tavolo. Così variegato in colori, persone, character design, che anche se vecchio non ha nulla da invidiare a quelli di oggi. Presente quando qualcosa invecchia bene, quel tavolo sembra non essere mai invecchiato, per tematiche, scrittura e atmosfera.
Spike: io vivo in un sogno dal quale non riesco a destarmi.
«Barista, una bottiglia di quello».
Un tizio mi sorprende alla mia sinistra. Ero troppo concentrato su quel tavolo, non l’ho notato entrare. Alto, asciutto, ben proporzionato. Gli occhi sono di colore diverso, il sinistro castano scuro con cui registra il presente, mentre il destro è rosso macchina, con cui ricorda il passato. Ha addosso la stessa aura degli altri tre, ragioni diversi ma stessa atmosfera, come un puzzle fatto di pezzi così diversi e così complementari. Tira fuori una sigaretta talmente stropicciata che mi ricorda quella di Daisuke Jigen.
«Hai da accendere?»
Gli faccio il favore, quello mi ringrazia con pigrizia. Afferra la bottiglia e contempla i suoi compagni al tavolo.
«Se c’è una cosa che non sopporto proprio sono i mocciosi, i cani e le approfittatrici».
Lo dice con sorriso triste, rassegnato e poi mi lascia lì al bancone da solo. Si unisce agli altri tre e subito inizia la ressa, voci su voci, confusione nel caos. Il bestione se la ride, la donna è lì senza essere lì e la ragazzina armeggia con qualche diavoleria che non riconosco. Un tavolo di scalmanati.
Cowboy Bebop: see you space cowboy!
Forse ho trovato il drink che andavo cercando. Questo Cowboy Bebop sembra di qualità, con una sceneggiatura e scrittura ancora contemporanee, miscelato con una poetica che unisce umanità, dolcezza e avidità. Il risultato è un drink spietato e malinconico che assaggia la crudeltà umana e alla fine restituisce un’emozione pura, capace di far appassionare al passato di personaggi visti in soli 26 episodi. Quel senso di solitudine, di perdita, che accompagna il drink alla fine rimarrà. Quel tavolo, fatto di figli di nessuno, di perdenti, ha chiuso la mia attesa. Grazie 1998, grazie Studio Sunrise, grazie Shin’ichiro Watanabe.
Cowboy Bebop: drink trovato
Mi alzo, lascio la mancia ed esco da quella porta. Il posto è riservato a Cowboy Bebop.
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