Uno dei film più attesi di questa e, paradossalmente, della stagione passata, arriva finalmente in sala: Challengers, un esplosivo mix tra tensione erotica e competitività, dove il tennis è “solo” un mezzo d’amplificazione di un desiderio carnale e di dominazione primordiale insito in ognuno di noi. Dal 24 aprile al cinema con Warner Bros.
Challengers, la storia di un film che non parla solo di tennis
Nell’approcciarci a questa recensione di Challengers forse andrebbe subito messo in chiaro che se siete dei patiti del tennis e vi aspettate un film che parli unicamente di quello, ci dispiace deludere le vostre aspettative ma no, Luca Guadagnino non fa un film sul tennis; fa qualcosa di meglio.
Un po’ come il cinema nel The Dreamers di Bertolucci funge da escamotage di incontro tra i gemelli Isabelle e Théo e l’americano Matthew, così il tennis fa da collante tra gli amici Patrick (Josh O’Connor) e Art (Mike Faist) e la promettente stella del tennis Tashi Duncan (Zendaya). Però, non parliamo di un semplice collante. Il tennis in questo film c’è ed anche tanto. Dettata ritmo, competizione, desiderio. È l’arena dove prendono forma le dinamiche alla base di questa pellicola che muovono i protagonisti: ossessione, tensione e controllo, ma anche sfida.
Si, sfida. Ma ciò per cui giocano questi sfidanti non è un “semplice” premio, una qualifica o una coppa o del denaro. No, c’è molto di più. E non è neanche l’occasione di avere il numero di telefono della inarrivabile – o quasi – Tashi Duncan. È controllo. Dominazione. Un gioco molto più perverso di quello che appare sullo schermo. Sottile, seducente ed assolutamente irresistibile, ma anche letale.
A rendersene conto, apparentemente tardi, sono proprio Art e Patrick, sfidanti alleati, complici e, forse, qualcosa in più che amici. Tashi appare realmente come una creatura di un altro pianeta, parafrasando ciò che Patrick dice ad Art nel descrivergli per la prima volta la ragazza. È una predatrice più che una giocatrice. Domina il campo e tutto ciò che la circonda. Brillante e frizzante, fresca ma con delle note oscure molto nascoste. Fiuta le sue prede, saggia il loro conflitto e lo fa esplodere in qualcosa di più accattivante, qualcosa che pulsa sotto la pelle, tra le gambe, nel sangue.
La trama si snocciola tra passato e presente, strutturata dallo sceneggiatore Justin Kuritzkes proprio come se fosse una partita di tennis: punti, set, game. Pause comprese. E la leggerezza del passato in contrasto con la pesantezza di un presente più duro, frustrante, a tratti soffocante, viene espressa proprio attraverso il legame di questi tre personaggi: dalla fatidica notte in hotel, alla prima sfida tra Art e Patrick per Tashi, fino ad una routine consolidata ma logora dopo oltre dieci anni.
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Un gioco inizialmente eccitante e, dal punto di vista di Tashi, perfino motivante, proprio perché composto da tre elementi. Nel momento in cui uno di questi elementi viene meno, lo squilibrio mette in pericolo tutto quanto, portando alla caduta e, forse, alla rovina. Del resto, nello sport l’equilibrio fisico e mentale è parte fondamentale della prestazione stessa, così come il bisogno di avere uno scopo, un obiettivo, una buona motivazione per combattere davvero, per dare il massimo, per fare… del fottuto buon tennis!
E a condurre questo gioco è proprio Tashi, competitiva e spietata come poche. Affamata, per non dire ingorda, e libera. Una libertà che con gli anni ha un suo prezzo, costa una facciata, uno stile di vita, un certo tipo di attitude nell’approcciarsi alla vita, alle sfide e perfino agli ostacoli disseminati sul campo da gioco. Ma Tashi non è un personaggio che si lascia abbattere e neanche una che raggira l’ostacolo. No, l’ostacolo lo affronta e se lo mangia anche a costo di essere mangiata ma la sua sicurezza è tale da farcela apparire realmente inscalfibile. Soprattutto, per Tashi, il gioco deve andare come detta lei e se le cose cominciano a sfuggire al suo controllo, allora è pronta a cambiare nuovamente le carte in tavola, giocando sporco.
Il linguaggio del corpo nel cinema di Guadagnino
Luca Guadagnino scende nelle profondità di desideri reconditi che hanno a che fare tanto con la sessualità, quanto con un concetto di controllo e dominazione, ma anche ossessione che dal campo da tennis si estende sul corpo umano. Il toccare. Lo stringere. Il possedere. È una sottospecie di conturbante ed ipnotica danza che prende forma attimo dopo attimo, battuta dopo battuta, mentre i silenzi, i movimenti e gli sguardi, comunicano più di qualsiasi parola.
Questo Guadagnino lo mette in pratica non solo con una regia che gioca tantissimo passando da lunghe carrellate sul campo ad un effetto “ping pong” che porta lo stesso spettatore a muovere la testa proprio come se stesse assistendo ad una vera partita di tennis, scivolando nella pelle di Tashi, nel suo punto di vista e poi in quello, addirittura, della pallina stessa; ma anche attraverso un’esaltazione del dettaglio: dalla goccia di sudore alle labbra morse, da una mano troppo stretta sul manico di una racchetta ad un sospiro che sembra quasi l’origine di un’estasi spasmodica pronta ad arrivare al suo apice.
Il vento che solleva la gonna, la mano di Patrick stretta al ginocchio di Art, le gambe larghe sugli spalti, i sorrisi falsamente imbarazzanti, il “C’mon” di Tashi aggressivo tanto quanto uno di quegli orgasmi arrabbiati. In questo senso, il tennis non è mai stato più sexy di così! E neanche le relazioni.
Questa è un po’ la firma di Luca Guadagnino: l’attenzione per il corpo. Non è mai volgare, non è mai morboso, ma è affascinante e allettante. Insomma, fortunatamente non è Kechiche. Guadagnino non feticizza, ma esalta. Lo possiamo vedere tanto in The Bigger Splash quanto in Chiamami col tuo Nome, così come in Suspiria e nel più recente Bones and All.
Più che con le parole, Luca Guadagnino lavora con i movimenti, ognuno dei quali porta un significato molto preciso e specifico, a volte sfidando tanto l’attenzione del suo pubblico quanto la sua “apertura mentale”, a volte riuscendo a tirare fuori “cose” che, forse, avevamo deciso di non vedere per paura, vergogna, bigottismo.
La voglia, quella vera, quella che si origina dalla bocca nello stomaco, fa tremare le gambe e ci fa sentire più animali che esseri umani, Guadagnino riesce a farcela sentire tutta, grazie anche al lavoro straordinario fatto da Trent Reznor e Atticus Ross sulla colonna sonora che simula gli spasmi, gli affanni del respiro, della battito cardiaco e delle pulsazioni.
Preme nel ventre dei suoi protagonisti e la fa esplodere in un tripudio di emozioni dalla rabbia al sesso, dall’amore all’odio, dalla frustrazione al desiderio. Riesce a creare quella perfetta atmosfera morbida, calda, invitante ed avvolgente, ed anche un bel po’ sudata e affannata, proprio come se tutto il film fosse girato in quella prima stanza d’hotel o dentro una macchina in un parcheggio.
A questo punto ci appare chiaro come la domanda non è tanto “chi?” ma “perché no?”. Non è una scelta su chi, ma la libertà di vivere un rapporto molto più articolato, molto più complesso che trova il suo equilibrio proprio sul trio e non sulla coppia o sul singolo. E, paradossalmente, entriamo nella sfera tanto del controllo quanto della perdita di quest’ultimo.
Art e Patrick ad inizio film, quando sono poco più che due ragazzini allupati e goffi, si lasciano completamente travolgere dagli eventi, hanno un’occasione e se la vogliono giocare e godere fino in fondo. La stessa Tashi è molto più libera, incurante quasi delle conseguenze di quella malizia in più, di quegli atteggiamenti languidi che conducono alla scoperta di sensazioni inesplorate. Con il passare degli anni, questa libertà sembra essere presente unicamente in Patrick, sicuro tanto del suo swing quanto della sua sessualità.
Art e Tashi sono incassati in ruoli che, in fondo, gli stanno stretti. E mentre l’ambizione di lei diventa l’asfissia di lui, Patrick è colui che prima di tutti arriva alla reale risoluzione del problema: l’accettazione del triangolo stesso. È così che lui, Tashi e Art funzionano meglio.
Non è un controllo sulle proprie pulsioni, una dominazione sugli impulsi e i desideri, bensì un saper sfruttare tutto questo a proprio vantaggio e, quindi, governare con il massimo del piacere per tutti: professionale e sessuale. Non è una partita a due, è una partita a tre! E tutti e tre hanno bisogno di quella chimica, quella formula magica, quell’equilibrio fatto di carne e antagonismo per dare il meglio e avere il massimo.
Il trio delle meraviglie
Fermo restando che la combinazione tra la regia di Luca Guadagnino e la scrittura Justin Kuritzkes fa sì che quello che poteva essere un banale film sul sesso, sul trope del triangolo, una fanfiction senza arte ne parte, sia uno dei film migliori di questa stagione, nonché probabilmente la pellicola più ambiziosa del regista italiano stesso, immortalando su schermo una storia che ha a che fare tanto con i legami quanto con lo sport, con il desiderio (sessuale e non) e il gusto del controllare; sono gli attori al centro di questa pellicola a fare la differenza.
Fare di meglio, molto probabilmente, sarebbe stato difficile. Al centro di tutto troviamo una Zendaya che tiene banco. Una vera e propria divinità, di quelle tanto più abbaglianti quanto più letali. Lei è la condottiera, lei è nodo e fulcro da cui si ramifica tutto quanto. Lei è la crepa, la “sfascia famiglie” che prende ben presto terreno tra innocenza e languore, compostezza e cupidigia.
Un’interpretazione conturbante, tra l’ossessione e l’amore, sentimenti che rispettivamente provano per il suo personaggio i poli opposti – ma che si completano tra loro – rappresentati da Josh O’Connor con il suo Patrick e Mike Feist con Art. Ma mentre quest’ultimo raffigura il ragazzo d’oro, quello dolcemente bello, capace di essere velenoso ma senza crederci per davvero, adorabilmente goffo, in parole povere: l’uomo da sposare; Josh O’Connor da vita ad un “bad boy” sfaccettato, immaturo e con il testosterone palla e che buca lo schermo nello stesso identico modo di Zendaya.
Per una parte di film, Mike Feist viene quasi fagocitato dal rimpallo tra Zendaya e O’Connor, faticando non poco a trovare la sua dimensione; eppure, proprio come il suo personaggio, è chimicamente necessario per rendere questa mistura per immagini di umori e sudore assolutamente perfetta. Infatti, nella seconda parte di pellicola comincia ad avere una connotazione molto più decisa e prepotente, per quanto non riesca mai del tutto ad imporsi sugli altri due, un po’ vittima del suo stesso Art. Ma funziona. Funzionano! Il bello di Challengers è proprio questo, l’assolutamente perfezione di incastro dei tre protagonisti. Iconici. Violenti. Sexy.
Zendaya/Faist/O’Connor sono il tiro decisivo di Luca Guadagnino, il suo punto vincente per un film che non parla mai davvero di sport, non parla assolutamente di amore e che, a volte, parla di sesso. Challangers è una pellicola che parla di legami, della complessità delle relazioni, della difficoltà nel saper gestire un tumulto tale di emozioni da renderci più animali, affamati, bramosi, bisognosi di dominare ed essere dominati. Guadagnino con Challengers confeziona il suo The Dreamers, probabilmente meno poetico ma non per questo meno iconico.
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