Tokyo Ghoul (東京喰種トーキョーグール Tōkyō Gūru) esce nelle librerie giapponesi nel 2011.
Nel 2014 è al quarto posto nei manga più venduti dell'anno.
Complici l'atmosfera dark, concept accattivanti, un dramma esistenziale e combattimenti molto scenografici, la storia scritta e disegnata da Sui Ishida ha avuto e continua ad avere un buon successo di pubblico.
Alle fiere si vendono i gadget, il fumetto ottiene un prequel e un sequel, nel 2014 esce la serie anime e infine, l'estate appena passata, viene proiettato nei cinema il film live action, che arriverà da noi in Italia nel marzo del 2018.
E' cosa universalmente riconosciuta che i ghoul esistono e che debbono cibarsi di carne umana. Gli esseri umani, ovviamente, li temono, c'è panico e sospetto. Queste creature si aggirano alla luce del sole confondendosi nella folla e, ogni tanto, mietono vittime.
Questa la cornice in cui è inscritta la nostra vicenda.
Kaneki, studente universitario rimasto orfano da piccolo, scampa per un pelo al pericolo di venir divorato. Trasportato d'urgenza in ospedale, gli vengono trapiantati gli organi del ghoul di cui stava per divenire il pasto, rimasta uccisa in un incidente.
E così diventa un essere a metà: in parte ghoul, in parte umano.
Inutile dire che la sua vita non sarà più la stessa.
Il mondo in cui sarà costretto a immergersi ha ombre lunghe e stanze buie.
Il regista del lungometraggio, Hagiwara Kentarō, ha preso in mano un progetto particolarmente complicato da far funzionare. Come sempre, quando si ha a che fare con l'adattamento di un manga che ha un gran seguito, si rischia sempre di andare incontro alle ire di qualcuno.
Sebbene si abbia una discreta sicurezza sull'affluenza nei cinema, non si saprà mai bene quali saranno i sentimenti dei fan quando usciranno dalle sale.
In più la presenza di esseri come i ghoul, con particolari caratteristiche fisiche (come code e tentacoli) sono da riprodurre con una certa oculatezza.
Purtroppo Hagiwara non è stato fortunato, o abbastanza accorto. I kagune, gli organi predatori dei ghoul, le appendici mobili con cui attaccano le “prede”, in alcuni momenti sembrano fatti con una computer grafica arrivata direttamente dai primi anni 2000.
A parte questa piccola caduta di stile, il film è in generale piacevole da guardare, la prima parte è fluida e scorre senza rallentamenti.
Kubota Masatada, che ha vinto un premio nel 2015 come miglior attore per il live action di Death Note (no, non quel terribile incidente che potete vedere su Netflix), è un protagonista molto convincente. È stata una buona scelta di cast.
Alcuni ghoul non si fanno problemi a cacciare gli umani, e a ucciderli per mangiare.
Un'altra parte cerca di inserirsi nella società in maniera più o meno tranquilla, cerca una coabitazione silenziosa. Cercano di non uccidere ma di recuperare gli alimenti (leggete carne umana) in maniere alternative.
Tutti vengono però ugualmente braccati e ammazzati dalle colombe, soprannome con cui vengono chiamati gli agenti del CCG (Commissione per le Contromisure per i Ghoul).
Alcuni uccidono per timore altri per fame.
Chi è veramente la vittima? Chi il carnefice?
C'è sempre e comunque qualcuno che finisce per soffrire, da tutte le parti.
Ogni ghoul indossa una maschera fatta su misura per lui, che lo rappresenti.
Loro che non possono mostrare il loro vero io ogni giorno, che devono nascondersi perché diversi, trovano una certa libertà, una possibilità di soddisfare un bisogno primordiale.
Estarnano ciò che hanno dentro con un volto finto.
Il paradosso di quanto l'artificio mostra la realtà.
Alla base di molte scelte c'è sempre quel desiderio spasmodico di poter far parte di qualcosa. Di cambiare e adattarsi per poter trovare il proprio posto.
Lo stesso protagonista, diviso tra due mondi, non ha idea di dove collocarsi. Non ha un luogo d'appartenenza è lacerato da questo senso di inadeguatezza e di dubbio che pervade il suo essere.
Decide di scegliere in base a ciò che vede e vive, non in base alle regole pre-esistenti che gli dicono altri.
Sarà lui personalmente a cercare di capire cos'è giusto e cos'è sbagliato, per agire poi di conseguenza.
Non sono 120 minuti elettrizzanti ma sempre alla scoperta di come il regista ha voluto rendere l'opera di riferimento.
Interessante e piacevole, d'impatto visto sul grande schermo.