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Cancel culture, revisionismo e Roald Dahl: è davvero questa la soluzione?

Partendo dal caso Roald Dahl, cerchiamo di capire perché la cancel culture non è la soluzione.

Nelle scorse settimane il caso Penguin e Roald Dahl ha infiammato le pagine del web, tra articoli, opinioni e dibattiti. Si tratta di uno degli ennesimi casi di cancel culture e di una mancanza totale di contestualizzazione dell’opera e del periodo in cui questa è stata creata. Non è il primo, non sarà l’ultimo. Non a caso, neanche il tempo di archiviare la questione che si è passati a parlare della possibile censura da applicare ai romanzi di Ian Fleming e al suo iconico personaggio James Bond, l’agente 007.

Il caso Roald Dahl

Roald Dahl

Per chi si fosse perso la discussione, il tutto nasce da un giornalista del Telegraph che si rende conto esserci delle differenze nel testo tra la versione “storica” e quella attuale della Puffin Books, marchio della Penguin Random House che si occupa della pubblicazione dei romanzi di Dahl, ancora fortemente apprezzato come autore per l’infanzia. Sotto propria iniziativa, la Puffin Books ha deciso di rivedere “alcuni termini” scelti all’epoca di Dahl per rendere più “safe” il testo originale. Voler rendere le storie più inclusive e in linea con la cultura di oggi; insomma più attente alle tematiche e lettori più sensibili.

In realtà, già nel 2020, la Penguin aveva adottato delle misure nei confronti dei testi di Dahl che, per qualcuno, sono oggetto di discriminazioni e offese nell’uso di alcune terminologie con fare dispregiativo, come la descrizione delle streghe o l’uso di parole come “grasso” e “brutto”. In quel caso, però, semplicemente aveva inserito dei piccoli “trigger warning, cosa fatta da moltissimi oggi sia in ambito letterario che fumettistico, ma anche per quanto riguarda contenuti audiovisivi, proprio per avvisare che il linguaggio o i temi trattati potrebbero essere forti o da contestualizzare.

Il trigger warning, in realtà, può essere un giusto compromesso, un utile strumento tanto di allerta, appunto, quanto di aiuto alla contestualizzazione. Serve a ricordare che la letteratura, come ogni forma d’arte, è un prodotto del suo tempo e può riflettere i pregiudizi dell’epoca in cui è stata creata. Riconoscendo questo fatto, i lettori possono interagire con il testo in modo più critico e sfumato, riconoscendo sia i punti di forza che i limiti del lavoro. Inoltre, gli avvisi consentono ai lettori di prendere decisioni informate su ciò che vogliono leggere e a cui decidono di esporsi. Cancellare parole, omettere passaggi e cambiare intere frasi, invece, è un altro paio di maniche.

Ricordiamo che Roald Dahl è anche lo stesso scrittore che su un divanetto assieme a Francis Bacon disse con furore:

Se mai dovessero cambiare una sola virgola delle mie opere, giuro che non pubblicheranno mai più una riga a mia firma.

A quanto pare, però, a 33 anni dalla morte dell’autore, queste parole hanno perso di valore, almeno per la Penguin.

Quando la “piccola modifica” diventa revisionismo

I libri di Roald Dahl e le modifiche della Penguin

Il Telegraph si è occupato di confrontare tutte le opere, riportando un articolo esaustivo con tutte le modifiche che sono state apportate. Quelle che la Penguin ha definito “piccole modifiche” sono, in realtà, centinaia che non si limitano solo alla singola parola, bensì rimaneggiamenti veri e propri, andando a modificare descrizioni, aspetto fisico dei personaggi ed interi paragrafi. Alla faccia della “piccola modifica”!

Nessuno mette in dubbio che diversi passaggi e terminologie usate da Dahl possano risultare discriminanti e sessiste, ma parliamo di un uomo di inizio ‘900, figlio della sua cultura e del suo tempo. Il testo, come qualsiasi altra cosa, andrebbe un minimo contestualizzato. Cosa che, evidentemente, a chi si è occupato delle modifiche, è sfuggita. Sarebbe un po’ come se qui in Italia cominciassimo a mettere l’intimo alle statue in Campidoglio… Ah, è stato già fatto? Chiedo scusa!

Battute a parte, questo revisionismo va ben oltre la censura. Per quanto possiamo dibattere sul tema se le opere appartengono a chi le scrive o a chi le fruisce, forse siamo andati un po’ oltre il limite. Senza contare che l’operazione “rendiamo Dahl friendly”, non era stata annunciata. Insomma, la Penguin ci ha provato a farcela da sotto al naso, ma è andata male. Risultato? Dopo giorni di polemiche varie, tutto quello che si è ottenuto è una mezza marcia indietro. I libri verranno stampati in entrambe le versioni con tanto di avviso per quella “edulcorata”.

L’impoverimento del dialogo

Gina Carano e il licenziamento dalla Disney

Andando oltre il caso specifico di Roald Dahl, il problema principale della maggior parte di queste discussioni è che, spesso e volentieri, si parte tutti per la tangente, impoverendo il dialogo e riducendolo a delle vere e proprie tifoserie con scimmie urlatrici, senza arrivare mai davvero al nocciolo della questione. Questo perché?

Si comincia a fare un mescolone incredibile di cose, cariche di disinformazione, il cui obiettivo è quello, principalmente, di fare di tutta l’erba un fascio. Si urla ai “woke”, al “politicamente corretto”, il perbenismo, l’evergreen “non si può dire più nienteee1!1!1!” a, se il caso lo consente, una sempre croccantissima “teoria gender”. Un uso il più delle volte scorretto di queste terminologie, usato con una leggerezza disarmante, è volto per lo più ad impoverire le battaglie reali. Un po’ come l’uso improprio della parola “goliardia” per giustificare la “stronzaggine” e maleducazione di alcune persone.

Inutile dire che un caso come questo non fa altro che alimentare questa paranoia sociale delirante. Bisogna analizzare caso per caso. Non possiamo sicuramente mettere sullo stesso piano una Gina Carano, che, lavorando per la Disney, decide “oggi” di esordire con uscite alt-right su Twitter paragonandosi “perseguitata come gli ebrei” dagli oppositori (convinta di non avere ripercussioni dopo una stron***a simile) e, invece, i tweet di 15 anni prima di un James Gunn, dove l’uso dei social era completamente differente e sicuramente la maturità del regista, nonché la sua carriera, molto diversa. Avete mai provato a vedere cosa scrivevate voi 15 anni fa sul vostro Facebook? Provate!

Adesso, questo non giustifica Gunn, ma il suo caso va, appunto, analizzato in una maniera differente rispetto a quello di Carano. Così come non si può cancellare la filmografia o la bibliografia di un autore/autrice se ha compiuto, e l’abbiamo scoperto dopo, atti assolutamente condannabili. Le loro opere, che hanno avuto un peso, restano. Se ancora in vita, però, possiamo evitare di fargli produrre delle nuove opere o finanziare il loro lavoro presente. Inoltre, la consapevolezza con cui ci possiamo approcciare a quelle passate può cambiare nel singolo. Del resto, non è certo cancellando il nazismo dai testi storici che tutte le atrocità compiute dal nazismo spariranno. Anzi, questo serve proprio a sviluppare un senso critico in chi legge, studia, si documenta. Dovrebbe essere un monito per non commettere gli stessi errori del passato nel presente e futuro.

L’importanza della consapevolezza e contestualizzazione

Gene Wilder nei panni di Willy Wonka ne La Fabbrica di Cioccolato

Il mondo è cambiato, i linguaggi si sono evoluti e, per fortuna, c’è anche una maggior attenzione ai temi, problemi, sensibilità, alla rappresentazione e normalizzazione dei corpi che riguardano l’essere umano in ogni sua infinita sfumatura. Ed era così anche “ieri”, la differenza è che il mondo ieri era molto diverso da quello di “oggi” (e per fortuna)! Adesso, non parlerei mai di passi di gigante, ma diciamo che di tanto in tanto si riesce a scappare dallo stereotipo del medioevo.

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Oggi siamo molto più consapevoli su tutto ciò che ci circonda e per questo motivo la critica è più aspra. C’è una maggiore consapevolezza del senso e del valore della parola, ma anche del suo uso e della sua rappresentazione. Continuiamo ad essere ancora vittime di rappresentazioni standard e distorte che ci vorrebbero tutti allo stesso modo, o di generalizzazioni che vedono il “troppo grasso” o il “troppo magro” immediatamente associato a disturbi alimentari, per fare un esempio. Come se tutti i corpi grassi fossero obesi. Breaking news: non è così!

Inevitabile che la società sia ancora così vittima di canoni estetici interiorizzati da tempo. Il passo più importante che possiamo fare è proprio quello di comprendere i nostri limiti, esserne consapevoli e poi superarli, senza l’arroganza di sapere già tutto o che il nostro punto di vista sia più valido di quello di altri. Ascoltare, magari, chi ne sa più di noi ed entrare nell’ottica delle idee che le cose OGGI sono cambiante.

Cancel culture e social giudicanti

Se nella narrazione si racconta di diverse persone e le loro storie, non tutte etero, non tutte bianche, non tutte taglia 38, non tutte abili, non tutte cis, non è “politicamente corretto”, ma è realismo. Affacciatevi ogni tanto al di là del vostro orticello, resterete sorpresi! Le eccezioni di chi “cavalca le onde”, ma anche lì dovrebbe essere il nostro saper contestualizzare ed analizzare la situazione a comprendere la differenza, non urlare allo “scandalo” quando non c’è assolutamente niente di scandaloso. Non è un caso se spesso e volentieri questo genere di critiche deriva soprattutto da una mentalità incapace di abbandonare il proprio retaggio culturale o di sentirsi costantemente al centro del discorso. Meno egocentrismo, grazie!

Le rivoluzioni sociali, politiche e culturali hanno allargato la visione del mondo e delle storie, portando gli stessi artisti ad approcciarsi in primis in modo differente. Cambiare un intero paragrafo di un libro scritto nel 1960, con la cultura del suo tempo, non lo vedo poi troppo diverso dal bruciare un libro in pubblica piazza. Esistono in letteratura testi complessi, problematici, molto più delle storie di Roald Dahl, ma il discorso rimane sempre quello: contestualizzare. E la contestualizzazione è la prima grande nemica della cancel culture, così come la cancel culture è la prima grande nemica del naturale sviluppo del senso critico dell’essere umano.

Il grave problema della cancel culture

Il problema della cancel culture

Partiamo dal presupposto che la cancel culture, soprattutto quella che ci viene presentata oggi, rappresenta una vera e propria minaccia per la libertà di parola. Uno dei capisaldi di una società democratica è il diritto di esprimersi liberamente, senza timore di censure o ritorsioni. Questo non ci legittima a dire la prima c*****a che ci passa per l’anticamera del cervello o sventolare, come una bandiera, la frase “non si può dire più nulla”, completamente fuori contesto. Libertà di parola non è sinonimo di insulto libero, razzismo, misoginia, omofobia, odio gratuito e chi più ne ha più ne metta. Possiamo esprimere le nostre opinioni anche in modo civile, no? Ricordandoci sempre che a tutto può corrispondere una conseguenza, più o meno grave. In questo senso, indubbiamente è importante che tutte le persone coinvolte nella creazione e nella diffusione dell’arte (ma non solo) si assumano la responsabilità dell’impatto che il loro lavoro può avere sul fruitore.

C’è anche da dire che la cancel culture alimenta un clima di ansia e terrore pericoloso, spronando poco al dialogo per paura di essere “cancellati” o messi alla gogna sociale. Complice in questo contesto è sicuramente l’uso improprio dei social che, per alcuni, sono diventati il bar di quartiere dove sparare la prima fesseria. La differenza è che nel bar di quartiere, nessuno ti ascolta o comunque la tua castroneria ha poca risonanza, su Facebook e Twitter i danni sono amplificati. E per danno intendo un abuso di informazioni incomplete o imprecise che si diffondono talmente tanto rapidamente, e senza nessun check, che il più delle volte vengono prese per vere senza un’adeguata verifica dei fatti.

Nel contesto della cancel culture, ciò può portare persone o organizzazioni innocenti a essere presi di mira per cose che non hanno effettivamente fatto o creduto. Ciò può avere gravi conseguenze, tra cui perdita di reputazione, perdita del lavoro e persino azioni legali. Per non parlare delle pressioni psicologiche o danni alla salute mentale. Nel caso dell’arte, per esempio, “bruciare” l’opera o cambiarla completamente senza il permesso di chi l’ha creata. E comunque, secondo questo ragionamento, dovremmo cancellare una quantità infinita di prodotti creati in contesti in cui il suffragio universale era meno credibile dell’invasione aliena.

Fornire strumenti, non eliminare contesti

Le Streghe di Roald Dahl

Ritornando proprio sulla questione Penguin e Roald Dahl, vengono evidenziate le tensioni tra la libertà di parola e la responsabilità di autori ed editori di creare opere che siano inclusive e rispettose di tutti gli individui. Sebbene sia importante riconoscere e affrontare i contenuti problematici della letteratura, è altrettanto importante farlo in un modo che promuova l’impegno critico, senza compromettere la visione dell’autore o la capacità del lettore di interagire con argomenti complessi e stimolanti. E, finendo col diventare ripetitiva, è fondamentale fare una differenza tra passato e presente, contestualizzando i periodi storici, culturali, sociali e la loro influenza sull’artista in questione.

Prima di urlare “chi pensa ai bambini”, forse dovremmo ragionare sul fatto che la soluzione non è cancellare ma educare all’approccio critico al conflitto. Il nostro non è un mondo fatato prospero di gioia e amore. Proprio per questo bisogna guidare con l’arte a non commettere gli stessi errori del passato, a fornire gli strumenti necessari per decodificare tutto ciò che ci circonda, ad approcciarsi alle problematicità, alle diversità viste ieri e come vederle oggi, reagendo e comportandosi di conseguenza.

Gli stessi editori dovrebbero fornire più risorse ai lettori per interagire con argomenti stimolanti e contenuti problematici, senza per questo polarizzare o impoverire il dibattito ma promuovendolo. Ciò può includere guide di discussione, forum online e altre risorse che incoraggiano i lettori a interagire con la letteratura in modo critico e sfumato. Ed ovvio che questo discorso non si limiti esclusivamente alla letteratura o al campo artistico. A seconda dell’età di riferimento, vanno forniti i giusti strumenti, chiavi di lettura, elementi essenziali che servono per affrontare nel modo giusti gli argomenti più sfaccettati e in alcuni casi spinosi senza adoperare barbaricamente tagli di forbice che vanno unicamente ad alimentare censura, tifoserie ed inasprimento collettivo.

Impariamo a stimolare e a stimolarci al confronto, l’unica vera cosa importante e che conta, e cominciamo a “cancellarci” un po’ meno!

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Gabriella Giliberti

Gabriella Giliberti, nata a Martina Franca nel maggio del 1991, è una critica cinematografica televisiva, scrittrice e content creator. Dopo essere cresciuta a cinema horror, vampiri e operetta, si è formata a Roma, specializzandosi in storia del cinema, sceneggiatura e critica. Dal 2015 al 2022, è stata penna e volto del sito Lega Nerd, ricoprendo il ruolo di capo redattrice nella sezione Entertainment dal 2019 al 2022. Collabora regolarmente sia su riviste online che cartacee, ed è presente come inviata, moderatrice e speaker presso i principali Festival e Fiere. Attraverso il suo profilo @GabrielleCroix su Twitch, TikTok ed Instagram condivide e divulga l’amore per la pop culture con la sua community e pubblico di appassionati. Ha partecipato all’antologia “Emozioni da giocare” (Poliani, 2021) e “Moondance – Tim Burton, un alieno ad Hollywood” (Bakemono Lab, 2023). Da sempre appassionata di mostri, attualmente è a lavoro su diversi progetti che riguardano la rappresentazione del mostruoso nella società. “Love Song for a Vampire – Etologia del Vampiro da F.W. Murnau a Taika Waititi” (Bakemono Lab, 2023) è il suo primo libro, e non ha intenzione di smettere.

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