Nel discorso di accettazione del National Book Award, Ursula Le Guin fece notare la tautologia insita nella definizione di scrittori dell’immaginazione in contrapposizione ai cosiddetti realisti ed espresse il suo rammarico per il fatto che si senta la necessità di distinguere fra scrittori fantasy e scrittori tout court. Il conferimento di questo premio alla Le Guin (fra i beneficiari del premio figurano anche Stephen King e Ray Bradbury) è un importante passo avanti nel processo di legittimazione della letteratura di genere, ma la strada da fare è ancora lunga.
Alcune riflessioni attorno al successo del fantasy si sono concentrate sulla sua capacità di fornire immagini di un mondo entro il quale esistono delle regole sicure; la virtù viene premiata, il coraggio trova la sua consacrazione, la bontà il suo trionfo. Questo approccio si basa sull’apparente coincidenza fra i periodi in cui il fantasy ha riscosso maggior successo e crisi a livello mondiale. Sarebbe dunque la fiducia nel lieto fine, che il fantasy tende a premiare, a costituirne il fascino. Queste riflessioni finiscono, tuttavia, per giustificare le critiche di escapismo e infantilismo mosse alla narrativa fantastica, che è molto di più di questo. Lo scopo del fantasy, fra gli altri, è quello di farci riflettere – attraverso metafore e parallelismi e quindi in modo inconsapevole e per questo più profondo – sui temi del nostro tempo, costruendo un universo valoriale di riferimento. Ci permette di meditare sulla natura dell’uomo, sulle sue motivazioni e sulle relazioni che intesse con gli altri e con la società in cui è inserito. Mettendo alla prova la nostra visione del mondo, ci consente di tornare alla vita di tutti i giorni arricchiti dalle scoperte che siamo stati in grado di fare grazie al confortevole isolamento che ci ha saputo regalare.
La letteratura di genere è per natura simbolica: l’elemento allegorico esiste implicitamente. Ci piace perché esprime in modo nascosto le nostre paure e le nostre aspirazioni (in fondo lo fa ogni forma d’arte), i nostri desideri più nascosti e ciò che segretamente ci attrae, le nostre pulsioni più cupe. Emozioni che talvolta, per il bene nostro e degli altri, la società ci impone di tenere sotto controllo. Si prendano, ad esempio, i tre pilastri dell’horror moderno: Frankenstein di Mary Shelley, Dracula di Bram Stoker e Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde di Robert Louis Stevenson. Narrano tutti e tre storie estremamente avvincenti, piene d’azione e suspense, hanno riscosso immenso successo e eco culturale senza pari. E tutti e tre, sotto i vestiti della narrazione, nascondono significati simbolici. Frankenstein è la storia di dove può condurre l’hybris umana e l’aggravarsi della colpa quando non si vogliono accettare le responsabilità delle proprie azioni; il romanzo impartisce uno dei moniti più antichi della letteratura e del mito: alcune cose devono rimanere nascoste. I fulcri cardine di Dracula sono l’abuso sessuale e il male esterno, mentre Stevenson dipinge l’ipocrisia della società vittoriana e il duplice volto della corruzione morale nella figura del dottor Jekyll e del signor Hyde. Tema questo anche del capolavoro di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, di pochi anni successivo. La bestia dentro di noi che lotta per uscire è un topos antico come l’uomo e la figura del Licantropo ne è l’archetipo. L’horror ci consente, quindi, di indulgere per interposta persona in comportamenti devianti e antisociali. È più o meno lo stesso effetto perseguito dalla tragedia greca: la catarsi attraverso la pietà e il terrore. O ancora la ragione dietro le manifestazioni carnevalesche medievali e rinascimentali, che rappresentavano una valvola di sfogo per il popolo e per i suoi disdicevoli e scomodi sogni di potere. Il capovolgimento dei valori permette di smettere di essere se stessi e raggiungere in questo modo una più alta consapevolezza della propria identità. In questo senso, horror e fantastico non fanno altro che mettere in scena l’eterno scontro fra apollineo e dionisiaco. Il vecchio conflitto tra Es e Super Io, del libero arbitrio, della scelta di abbracciare il male o ripudiarlo, tra mortificazione e appagamento.
L’eroe del fantasy diventa l’homo viator, il wanderer, il seafarer della tradizione che mette in movimento le sue aspirazioni di accrescimento interiore e esteriore, caricando la sua quest di aspettative collettive se non addirittura universali. È talvolta l’eroe eccezionale, posto di fronte a circostanze eccezionali, è talvolta un personaggio normale che di fronte a circostanze eccezionali trova nella propria normalità una qualche insospettata forma di eroismo. “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi” scriveva Brecht, eppure i nostri tempi, come tutti i tempi, hanno bisogno di eroi. Non necessariamente ribelli audaci e ardimentosi esploratori, ma individui probi che accettino il proprio ruolo, anche se umile e silenzioso, che consiste nella totale assunzione delle proprie responsabilità nei confronti della società.
Nel saggio Sulle fiabe, J.R.R. Tolkien s’interroga sull’esistenza di una qualche relazione essenziale tra i bambini e le fiabe. Sottolinea come esse siano in realtà state adattate per i bambini, privandole dei passaggi più cupi e cruenti. Operazione che, del resto, si potrebbe fare benissimo con qualsiasi altra cosa. Questa semplificazione delle fiabe è dannosa sia per la fiaba in sé che per il pubblico di bambini cui dovrebbe rivolgersi. Nel primo caso perché comporta una falsificazione dei valori che questo genere porta, nel secondo perché dovrebbe offrire ai bambini occasione di crescita e quindi materiale che vada oltre le loro capacità, piuttosto che al di sotto. Occorre quindi riconoscere alla fiaba (e al fantasy) il diritto di raggiungere lo status di un’arte pienamente adulta e nello stesso tempo non si devono considerare i bambini come appartenenti “ad un genere particolare di creature, quasi una razza diversa, [ma piuttosto] come membri normali, anche se immaturi, di una particolare famiglia, e della famiglia umana in genere”.
A sostegno della condanna di infantilismo, vengono portati la maggior credulità dei bambini e il loro appetito per le meraviglie. Nel primo caso, far leva sulla credulità, significherebbe approfittare della loro naturale mancanza di esperienza per le cose del mondo. Nel secondo caso, nulla da obiettare. È indubbio il maggior appetito dei bambini per le meraviglie rispetto agli adulti. Questo però dovrebbe portare gli adulti ad alimentarlo piuttosto che trascurarlo e in questo caso le fiabe sarebbero dunque più adatte a loro che non ai bambini. Per risvegliare il fanciullino che è in noi, “il fanciullo eterno, che vede tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta”. Non era Hemingway a dire che “avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore”?
Detto questo, bisogna chiedersi come si possa riconoscere un fantasy di qualità e, prima ancora, se esista un fantasy di qualità. Per molto tempo, e questo pregiudizio continua tutt’oggi, la letteratura fantasy è stata considerata emblema della letteratura di genere e da questa definizione il passo a letteratura di consumo non solo è breve, ma quasi automatico. Con il termine di letteratura di genere s’intende un testo che aderisce a un preciso filone narrativo, nel rispetto di determinate regole e criteri. Il valore di un testo risiede nella capacità di eludere e giocare con i limiti e i modelli tradizionali del genere, magari disattendendo le aspettative del lettore, provocandolo e sorprendendolo. Per letteratura di consumo s’intende, invece, un prodotto creato esplicitamente per la distribuzione al grande pubblico, come possono essere i romanzi Harmony, i penny dreadful o i dime novel americani, dei quali nessuno si preoccupa di provarne le qualità artistiche, sebbene non è detto che non possano nascondere alcune sorprese. Un romanzo di consumo si costruisce sull’utilizzo di stereotipie facilmente riconoscibili, sulla definizione di personaggi bidimensionali, su trame prevedibili e su una prosa piatta. La letteratura di genere, con stilemi e modelli più o meno riconoscibili, risulta ovviamente più adatta a una simile operazione.
È innegabile la presenza di superficialità nella critica e nell’analisi della letteratura di genere. Messi da parte i gusti personali e soggettivi, esistono criteri oggettivi per definire la bontà letteraria di un testo. Uno di questi è la complessità dei personaggi che, allontanandosi dalla rigida griglia bidimensionale di tanta letteratura di consumo, rappresentano la molteplicità, la fragilità, la contraddittorietà e l’unicità dell’animo umano, facendo di un romanzo una lente attraverso cui scrutare e sviscerare il mondo che ci circonda. Anche la scelta di affrontare grandi tematiche in maniera approfondita e complessa, così da farne emergere l’ambiguità e la polivalenza, segna la differenza fra un’opera mediocre o scadente e un’opera meritevole che si distacchi dai fini meramente consolatori e di intrattenimento della letteratura di consumo per aprire di fronte agli occhi dei lettori gli orizzonti ampi di un mondo vasto e articolato. E, ovviamente, la qualità della scrittura.
Un romanzo di qualità permette di intravedere il lieve balenare della verità dietro il velo di Maia che l’avvolge, quella verità tanto agognata e intangibile che si nasconde dietro le infinite maschere dell’esistenza e alla quale artisti e poeti riescono ad avvicinarsi più di tutti gli altri, cogliendo le segrete corrispondenze fra le cose. Essi riescono a entrare in contatto con il fanciullino che è in noi e ci guidano, come sciamani, nel regno dell’invisibile, verso l’Illuminazione.