Dopo una lunga attesa, fatta di molteplici espedienti promozionali, La Casa di Carta 3 è arrivata su Netflix, e con lei la nostra recensione. Inutile dire che le aspettative erano alte. Le prime due stagioni della serie spagnola hanno avuto un successo senza precedenti, facendone il prodotto più visto sulla piattaforma streaming tra le serie tv non in lingua inglese. Di fronte ad un dato tale, è inevitabile sperare che il livello sia lo stesso o addirittura più alto. E possiamo dirvi, dopo la visione degli otto nuovi episodi, che è stato così e di motivi ce ne sono molti.
Dopo il colpo alla Zecca…
Partiamo col dire che La Casa di Carta 3, seppure solo per il primo episodio, ci mostra i protagonisti fuori dai luoghi in cui li abbiamo visti per ben 22 puntate. Lontano dalla Spagna e dalla reclusione forzata nella Zecca, Tokyo e Rio vivono come i protagonisti di Laguna blu: “Nudi, selvaggi ma con qualche lusso”, come sottolinea la consueta voce narrante. Helsinki e Nairobi si danno alla pazza gioia, mescolandosi senza difficoltà alla gente argentina; Denver e la sua ormai moglie Stoccolma (Monica Gaztambide) vivono col loro bambino Cincinnati (sì, la tradizione dei nomi di città è stata anche tramandata) a Bali.
Da Panama alla Thailandia, passando per l’Argentina, la banda si è divisa in coppie e vive come se nulla fosse accaduto. Ovviamente, tutto è stato perfettamente organizzato e monitorato dal Professore. Peccato che Tokyo debba metterci sempre lo zampino e rovinare la serenità del gruppo.
La Casa di Carta 3, come un déjà vu?
Con il consueto gioco di flashback, visto anche nelle prime stagioni, pian piano si sciolgono alcuni dei dubbi del pubblico. Come sono fuggiti? Cos’è accaduto dopo la rapina? D’altronde, anche il gioco di parallelismi de La Casa di Carta 3 non passa inosservato. Così, come quando Tokyo, anticipando i tempi nella prima puntata della prima stagione, ha portato al ferimento di Rio, anche stavolta è lei a dare il via alla lunga serie di eventi che porteranno alla cattura del suo innamorato. E ancora: così come nella prima stagione, ecco di nuovo la banda ai bachi “di scuola del furto” col Professore stavolta intento a spiegare come rapinare la Banca Spagnola.
Dalle banconote si passa all’oro, la riserva spagnola d’oro, ma prima c’è da fare un bel po’ di casino. Per farlo la banda si allarga con nuovi elementi: Palermo, grande amico di Berlino; Marsiglia, che ben poco si vedrà nello show, e Bogotà, che prenderà una cotta per Nairobi. A queste vanno aggiunte la già citata Stoccolma e Lisbona, che è Raquel Murillo.
Lo scorrere delle puntate fila, così come nelle prime due stagioni, veloce, tra azione e momenti “emozionali”, che sono in quantità sicuramente maggiore rispetto agli scorsi episodi. Tutto è scandito da una serie di flashback, espediente narrativo usato per spiegare, di volta in volta, le varie fasi del piano del Professore. Ma se questo aspetto non cambia, ad essere diverso è il mood in cui si svolge l’azione.
Dalì e Robin Hood vestiti di Rosso
Il colore rosso, quello delle tute e della Resistenza, assume un ruolo ancora più forte, rivoluzionario. La Casa di Carta 3 si fa forte di eventi realmente accaduti: cortei e manifestazioni in tutto il mondo in cui molti hanno adottato come simbolo proprio la maschera di Dalì, come un Guy Fawkes 2.0. E il Professore lo sottolinea proprio nei primi episodi, ergendosi a Robin Hood della situazione.
È infatti chiaro che a muovere e smuovere la banda non sia il denaro ma un ideale: distruggere il sistema. Da qui la possibilità, poi concretizzata, che dei criminali diventino dei veri e propri idoli, con fiumi di persone pronte a schierarsi dalla loro parte. Il Professore lo sa e ne fa la sua più grande forza ne La Casa di Carta 3.
Il Professore Vs Alicia Sierra: uno scontro (finalmente) all’altezza
E se Tokyo dà il via alla serie di eventi sulla quale si basa la terza stagione, il Professore li scuote sino alla svolta definitiva. È suo il passo che cambia tutto. D’altronde, Sergio non ha fatto i conti col villain di turno: Alicia Sierra. La freddezza della donna – che cozza con la sensibilità della prima rivale Raquel – è una vera spina nel fianco e la rende un nemico all’altezza del Professore.
Alla base del fallimento c’è una sola cosa: i sentimenti. Proprio lui che ha imposto a tutti come prima regola il non avere rapporti sentimentali tra componenti della banda, “perde” per l’amore. Raquel è la sua forza ma anche la sua più grande debolezza. Lo ammette in un momento di crisi quando, in mezzo alla boscaglia, svela di sentirsi in colpa con la banda e cerca di ferirla dichiarando “Ti ho battuta in passato, sei tu il punto debole“. Eppure è proprio per lei che è disposto ad uscire allo scoperto, mandando tutto in frantumi.
La Casa di Carta 3: l’egemonia dei sentimenti
Sta qui la più grande differenza de La Casa di Carta 3: i sentimenti prevalgono sul resto, dando al prodotto (spesso e volentieri) i tratti di una soap. Un tratto che stonerebbe in altri casi ma che in questo – che ci ha abituati sin dall’inizio a toni talvolta eccessivi e stucchevoli – è coadiuvato da un’azione tale che il resto passa in secondo piano.
Sono i sentimenti che spingono sì la banda a riunirsi per salvare Rio, ma che fanno cadere in trappola Nairobi, distruggono, sul finale, Tokyo e portano il Professore ad abbandonare i principi portati avanti sino ad oggi.
Se, quindi, la trama e le azioni dei protagonisti ci danno in più di un’occasione un senso di deja vù, l’aspetto emozionale è ciò che cambia tutto. “L’amor che move il sole e l’altre stelle”, scriveva Dante ne La Divina Commedia, e ora anche il Professore lo sa bene. È per questo che, sul finale, dichiara: “Questa non è più una rapina, nemmeno un attacco al sistema: è una guerra!”
Quel Professore che ha gestito sin dall’inizio ogni cosa come in una partita, stavolta, però, è finito sotto scacco.
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