Il 7 ottobre 2006 la giornalista Anna Stepanovna Politkovskaja veniva uccisa con 4 colpi partiti da una pistola Makarov PM mentre stava per prendere l’ascensore all’interno del proprio palazzo, a Mosca.
Ancora oggi non si sa chi sia stato il suo killer ed il mandante di quell’omicidio.
Durante la sua carriera giornalistica aveva criticato duramente Vladimir Putin, soprattutto per la sistematica violazione dei diritti umani nella guerra in Cecenia.
Sapeva di essere in pericolo Anna Politkovskaja, ma aveva imparato a convivere con la paura, a convivere con l’etichetta di “pazza di Mosca”, come veniva definita dai media fedeli a Putin.
Il giorno seguente all’uccisione, l’8 ottobre, la polizia russa con la scusa delle indagini sequestra il computer della giornalista e tanto altro materiale da lei preparato.
Il 9 ottobre, invece, a far luce su un’inchiesta che Anna Politkovskaja aveva avviato è stato il suo editore della Novaja Gazeta, il premio Nobel Dmitrij Muratov.
Quest’ultimo ha affermato che il giorno dell’uccisione, Anna Politkovskaja stava per pubblicare un articolo sulle torture commesse in Cecenia dai kadiroviti, gli uomini del Primo Ministro ceceno Ramsan Kadyrov.
Lo stesso Kadirov che ha affiancato Putin nell’invasione dell’Ucraina e che quest’ultimo ha nominato generale colonnello dell’esercito russo.
Muratov il 9 ottobre pubblica sulla sua Novaja Gazeta una parte degli appunti della sua collega Anna Politkovskaja. Sono documenti sfuggiti al sequestro degli uomini di Putin, nonché forti denunce nei suoi confronti.
Marco Pannella ai funerali di Anna Politkovskaja
I funerali di Anna Politkovskaja si terranno il 10 ottobre al cimitero Troekurovskij di Mosca. Ai funerali oltre mille persone sfidano le autorità e partecipano per dare l’ultimo saluto alla giornalista.
Tra i presenti non c’è alcun rappresentante del governo russo. Tra le poche figure politiche presenti ai funerali c’è Marco Pannella, leader dei radicali italiani e amico della vittima, l’unico politico italiano presente a Mosca quel giorno.
Il #7ottobre 2006 la giornalista russa #AnnaPolitkovskaja, voce critica contro il regime di Putin, fu ritrovata morta. Stranamente non sono mai stati accertati mandante e colpevoli.
— Nara Bucchi (@cmqpiena) October 7, 2022
Marco Pannella, all’epoca eurodeputato, partecipò ai funerali.pic.twitter.com/TCfpimjgQm
Le parole di Anna Politkovskaja
Nelle sue dichiarazioni si percepiva la pressione che Anna Politkovskaja subiva per via del lavoro che svolgeva.
“Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola ad essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare.
I giornalisti non sfidano l’ordine costituito. Descrivono soltanto ciò di cui sono testimoni. È il loro dovere, così come è dovere del medico curare un ammalato e dovere dell’ufficiale difendere la patria. È molto semplice: la deontologia professionale ci vieta di abbellire la realtà.
Impedire a una persona, che fa il suo lavoro con passione, di raccontare il Mondo che la circonda è un’impresa impossibile. La mia vita è difficile, certe volte le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola ad essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare. Vivere così è orribile. Vorrei un po’ di comprensione. Ma la cosa più importante è continuare a fare il mio lavoro, raccontare quello che vedo.
Niente potrà togliermi il senso di colpa che ho nei confronti di coloro che hanno sacrificato la vita per il mio lavoro, per la mia resistenza al tipo di giornalismo che si sta instaurando in Russia grazie alla guerra “alla Putin”.
Parlo di un giornalismo ideologico senza accesso all’informazione, senza incontri né conversazioni con le fonti, senza verifiche dei fatti. Come ad esempio quello dei miei colleghi, che seduti dietro tre barriere di filo spinato nelle basi militari russe, riferiscono a Mosca del “miglioramento quotidiano” dei villaggi ceceni. Quel tipo di lavoro, che io credevo morto insieme al comunismo, da noi è ormai considerato la norma, e inoltre è riconosciuto e lodato dalle autorità. Quanto all’altro tipo di giornalismo, quello che comporta uno sguardo diretto su ciò che succede, non solo viene perseguitato, ma si rischia addirittura la vita. Un salto indietro di dieci anni, dopo la caduta dell’Urss!
Sono una reietta. È questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista in Cecenia e della pubblicazione all’estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me. Eppure tutti i più alti funzionari accettano d’incontrarmi quando sto scrivendo un articolo o sto conducendo un’indagine. Ma lo fanno di nascosto, in posti dove non possono essere visti, all’aria aperta, in piazza o in luoghi segreti che raggiungiamo seguendo strade diverse, quasi fossimo delle spie. Sono felici di parlare con me. Mi danno informazioni, chiedono il mio parere e mi raccontano cosa succede ai vertici. Ma sempre in segreto. È una situazione a cui non ti abitui, ma impari a conviverci. Erano queste le condizioni in cui lavoravo durante la seconda guerra in Cecenia, scoppiata nel 1999.
L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede.
Io vedo tutto. Questo è il mio problema.”